In molti conoscono la drammatica storia del Vajont, almeno per sentito dire. Non tutti però ne ricordano le cause scatenanti, così come l'anno preciso o i principali paesi coinvolti. Eppure basta nominare le parole 'diga del Vajont', perché riaffiori immediatamente il ricordo di un evento di cui la struttura fu protagonista e che colpì i centri abitati vicini nei primi anni Sessanta del secolo scorso.
Per la modalità in cui l’incidente si verificò, per la fama che prima di ciò già circondava l'altissima diga, per la risonanza che tutto questo ebbe non solo nel Friuli e nel Veneto, ma nell'intero Paese, per tutti questi motivi, la tragedia del Vajont risulta sempre densa di spunti di riflessione.
La costruzione della diga del Vajont
Siamo negli anni Cinquanta e l'Italia, un Paese in fortissimo e veloce sviluppo, ha bisogno di energia elettrica. Ecco allora che viene approvata la realizzazione di una diga su un progetto dell'ingegnere Carlo Semenza: la diga del Vajont andrà a creare un bacino artificiale lì, nella gola formata dal torrente Vajont, in provincia di Pordenone, nel comune di Erto.
I lavori iniziarono nel 1957 e terminarono nel 1960: si trattava, allora, della diga più alta del mondo. In tutto lo sbarramento misurava 261,5 metri di altezza, tanto da farne ancora oggi la settima diga più alta a livello globale. Anche la sua particolare struttura, oltre all'altezza spropositata, contribuì a renderla famosa nei primi anni Sessanta. Era una diga a doppio arco, curvata proprio per poter resistere alla spinta dell'acqua.
Il bacino creato alle spalle dello sbarramento raggiungeva un volume di 168,715 milioni di metri cubi. In quel grande lago artificiale veniva incanalata, attraverso lunghissime tubazioni, parte delle acque del Piave, del Maè e del Boite, creando un grande sistema di piccole centrali idroelettriche, per poi arrivare per l'appunto al Vajont. La creazione di questo sistema capillare e integrato – che passò alla storia come il progetto del 'Grande Vajont' – era stato ipotizzato da Semenza già nel 1929, cioè quasi trent'anni prima rispetto all'effettiva costruzione della diga.
Sulla carta il progetto era perfetto e, nonostante le proteste degli abitanti - e uno studio dello specialista austriaco Leopold Müller che ipotizzava la possibilità di grandi frane - la costruzione fu terminata, attivando così il 'Grande Vajont'. Lì, dietro la diga, si muoveva quasi impercettibilmente il monte Toc – il cui nome, in dialetto friulano, si rifà non a caso ai concetti di 'avariato', con riferimento alla sua natura franosa.
I movimenti del monte, una volta riempito il bacino, aumentarono, mettendo in allerta i gestori della diga: nell'ottobre del 1960 i movimenti sul pendio del Monte Toc arrivarono alla velocità di 3 centimetri al giorno. Di fronte a questa ormai evidente minaccia, il livello del bacino venne dunque abbassato, per arrivare, nei due mesi seguenti, a un'interruzione completa dei movimenti sul fianco del Toc.
Si decise quindi di costruire una galleria 'di sorpasso di frana', per poi riprovare con un nuovo rinvaso a partire dall'aprile del 1963, con l'autorizzazione a portare la quota del bacino fino a 715 metri sul livello del mare: quel livello non venne però mai raggiunto. In settembre il bacino arrivò infatti a 710 metri, ma i movimenti sul Toc ripresero velocità, attestandosi a 2 centimetri al giorno. Si procedette dunque con una lenta riduzione del livello delle acque, per tornare a 700 metri. La sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39 però, si staccò dal Monte Toc una frana lunga più di 2 chilometri, composta da circa 270 milioni di metri cubi di terra e di rocce.
Il disastro del Vajont
L'impatto della frana con il bacino creò tre gigantesche onde. Una sfiorò l'abitato di Casso; la seconda distrusse parti del Comune di Erto. La terza, composta da quelli che si stimano essere 50 milioni di metri cubi d'acqua, oltrepassò la diga del Vajont, dirigendosi verso Longarone. A livello del lago, si stima, l'onda raggiunse i 250 metri di altezza, per arrivare a circa 30 metri di altezza a fondovalle.
Si calcola che la forza d'urto dell'onda d'acqua, di rocce e di detriti che finì per abbattersi sulla parte meridionale di Longarone portò a uno spostamento d'aria del tutto simile a quello provocato dalla bomba atomica di Hiroshima. La piccola città di Longarone venne spazzata via: solo il municipio e un manipolo di case nella parte settentrionale del paese riuscirono a salvarsi. Quella notte morirono 1.917 persone (anche se è difficile fare una stima precisa delle vittime del disastro del Vajont) appartenenti, oltre che a quello di Longarone, anche ai Comuni di Erto e Casso, di Castellavazzo Codissago e di altri centri abitati raggiunti dall'onda e dai detriti.
Dopo oltre 7 anni di processo, nel 1971 la Corte di Cassazione indicò i due principali responsabili della tragedia del Vajont nella persona di Francesco Sensidoni, il capo del servizio dighe del Ministero dei lavori pubblici e componente della commissione di collaudo, e Alberico Biadene, direttore del servizio costruzioni idrauliche della Società Adriatica Di Elettricità. Allora come oggi è certo che il disastro del Vajont poteva essere evitato: la situazione instabile del Monte Toc, infatti, era evidente.
La diga del Vajont oggi
È passato oltre mezzo secolo dalla tragedia del Vajont. L'abitato di Longarone è stato ricostruito, ed è totalmente diverso dal paese che venne distrutto nel '63. La diga del Vajont, invece, è ancora lì, imponente come allora: la qualità del progetto e della costruzione fu tale che quell'enorme sbarramento riuscì a sopportare una spinta dieci volte maggiore a quella per la quale era stata progettata. Oggi, per tenere vivo il ricordo della tragedia, è possibile visitare la diga del Vajont, e persino fare delle escursioni guidate tra i ruderi delle case colpite dalla frana.