Il cosiddetto “water footprint” (o impronta idrica) è un indicatore del consumo diretto e indiretto di acqua dolce da parte di un consumatore singolo, una comunità o un’azienda; e rappresenta il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi, misurata in termini di volumi consumati (evaporati o incorporati in un prodotto) e inquinati per unità di tempo. Alla luce di questa definizione, diventa chiaro quanto sia prioritario il tema della scarsità d’acqua, un problema urgente da affrontare per individuare modi alternativi di riutilizzo e riciclo dell’acqua.
La città australiana di Perth, per esempio, sta lavorando molto in questi termini grazie al Woodman Point Water Resource Facility (realizzato dalla “Integrate JV”, joint venture guidata dalla società Clough del Gruppo Webuild), un impianto che tratta ogni giorno fino a 150 milioni di litri di acque reflue provenienti da quasi 900.000 case e aziende, trasformandole in prodotti utili come mangimi, biogas e fertilizzanti.
In un contesto globale in cui più di 2.7 miliardi di persone si trovano a convivere con il problema della scarsità d’acqua per almeno un mese all’anno, è importante comprendere la nostra impronta idrica, ovvero quanta acqua utilizziamo direttamente e indirettamente.
Quale attività dell’uomo ha l’impronta idrica più importante? Al primo posto l’agricoltura, che incide per il 70% sul consumo di acqua (soprattutto per la produzione di cibo), mentre l’industria (con il 19%) è il secondo più grande utilizzatore. Segue poi l’uso domestico: nei Paesi sviluppati, le persone possono consumare fino a 5.000 litri di acqua al giorno. Sorprendentemente, il 90% dell’acqua che utilizziamo è per noi invisibile: si chiama acqua virtuale e viene usata per la produzione di merci, elettricità, prodotti della manifattura e soprattutto del cibo che consumiamo. Basti pensare che servono più di 5.000 litri d’acqua per una semplice bistecca di 300 g.