Il Giappone delle infrastrutture è oggi spaccato in due. Da un lato Tokyo che si prepara alle Olimpiadi del 2020 anche attraverso la realizzazione di un ampio programma di rilancio basato sulle opere pubbliche; dall’altro le città più piccole e le aree rurali chiamate a convivere con infrastrutture obsolete e un bisogno urgente di investimenti.
L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dal Japan Times, uno dei più letti quotidiani del paese, che ha denunciato il ritardo negli investimenti e i danni causati, solo nell’anno in corso, dai 15 tifoni che si sono abbattuti sul Giappone.
Una preoccupazione che trova conferma anche nelle analisi del Ministry of Land, Infrastructure, Transport and Tourism che nel marzo del 2018 ha pubblicato una serie di dati preoccupanti. Secondo i dati ufficiali del ministero il 20% dei tunnel, il 32% delle chiuse idriche, il 17% delle barriere portuali è stato costruito tra gli anni ’60 e ’70 e ha quindi circa 50 anni di età.
Il costo per rimettere in sesto questo enorme patrimonio infrastrutturale per i prossimi 40 anni raggiunge i 547 trilioni di yen (5 trilioni di dollari), pari a cinque anni dell’attuale budget nazionale.
Stato delle infrastrutture in Giappone: il rischio inondazioni
Tra gli interventi più urgenti indicati dal ministero delle Infrastrutture giapponese c’è la messa in sicurezza dei fiumi contro il rischio di inondazioni, un fenomeno cresciuto negli ultimi anni proprio con l’aumento dei tifoni e delle piogge torrenziali. In Giappone, calcola il ministero, ci sono 7.400 chilometri di fiumi (l’equivalente alla distanza che divide Londra da Kabul) le cui rive dovrebbero essere oggetto di misure anti-inondazioni. Un problema che coinvolge milioni di persone: 1,5 milioni che vivono oggi nelle aree più a rischio (le regioni di Adachi, Edogawa e Katsushika), e 2,5 milioni di persone che vivono invece nell’area della grande Tokyo. La questione è mondiale e coinvolge tantissime grandi città, molte delle quali hanno attivato progetti di gestione virtuosa delle acque. È accaduto questo a Washigton D.C. dove il progetto Anacostia River Tunnel (realizzato da Salini Impregilo) interviene sulla qualità e sulla gestione delle acque dei fiumi che attraversano la Capitale statunitense evitando inquinamento ed esondazioni.
La sfida con la Cina: il piano Partnership for Quality Infrastructure
Negli ultimi sette anni la sfida geopolitica del continente tra Cina e Giappone si è consumata anche sul terreno delle infrastrutture.
Mentre Pechino investiva centinaia di miliardi di dollari nella Belt and Road Initiative (la costruzione di un canale di comunicazione tra l’Asia e l’Europa), il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe rispondeva con un piano di investimenti da 116 miliardi di dollari Usa. Il piano, chiamato Partnership for Quality Infrastructure, è stato lanciato nel 2016 e terminerà nel 2020 e ha come obiettivo, oltre che realizzare nuove opere in Giappone, quello di sostenere lo sviluppo internazionale dei colossi giapponesi delle infrastrutture. Il piano riconosce una serie di prestiti alle imprese private che scelgono di investire nei progetti infrastrutturali, non solo giapponesi ma anche stranieri, guardando in particolare al mercato europeo. L’idea di Abe non era quella di sostituirsi al piano cinese, ma di offrire ai paesi intenzionati a investire nel settore un’alternativa che privilegiasse la qualità alla quantità. La prima risposta è arrivata dall’India dove il Primo Ministro Nerendra Modi ha firmato un accordo che apre il mercato indiano alle imprese giapponesi per realizzare opere strategiche, come la linea ferroviaria ad alta velocità Mumbai-Ahmedabad.
Il ruolo dell’Europa
L’Europa si trova a oggi a giocare un ruolo strategico nella contesa aperta tra Cina e Giappone sulle grandi infrastrutture. Il presidente cinese Xi Jinping ha pubblicamente dichiarato la volontà di estendere la Belt and Road Initiative fino al vecchio continente.
Rispetto a questo attivismo, il Giappone non è rimasto a guardare e nei mesi scorsi Shinzo Abe ha incontrato più volte i rappresentanti dell’Unione europea. Ultimo atto di questo avvicinamento è stata la firma di un accordo a Bruxelles, ratificato ad ottobre, con il quale l’Unione ha stanziato 60 miliardi di euro (65 miliardi di dollari) per sviluppare infrastrutture di collegamento tra Asia e Europa al di fuori del progetto cinese. L’accordo formalizza la partecipazione del Giappone nel programma che in questo modo si pone come la più importante alternativa al protagonismo cinese nelle infrastrutture asiatiche.
L’Asia alla ricerca di nuove infrastrutture
L’attivismo cinese e le ambizioni giapponesi in ambito infrastrutturale riflettono la domanda crescente di infrastrutture del continente. Un bisogno di grandi opere che è stato censito per la prima volta nel 2017 dalla Asian Development Bank nel rapporto “Meeting Asia’s Infrastructure Needs”. Lo studio analizza il peso degli eventi climatici, ma anche l’arretratezza della rete infrastrutturale del continente arrivando alla conseguenza che, per mantenere la spinta economica di questi anni, dovranno essere investiti entro il 2030 19 trilioni di dollari, con una media di 1,7 trilioni all’anno. La maggior parte di questi investimenti dovranno essere divisi tra il settore energetico e quello dei trasporti, due settori strategici proprio per sostenere lo sviluppo economico del continente.
In sostanza, ricorda la Asian Development Bank, il gap infrastrutturale è ormai pari al 2,4% del Pil del continente. Una distanza che Giappone e Cina stanno tentando di colmare.