Dodici miliardi contro 4,7. Il divario è enorme, eppure è la differenza fra quanto il ministro della Infrastrutture, Enrico Giovannini, ha calcolato che servirebbe per risolvere il problema dell’acqua in Italia (la prima cifra) e i fondi invece disponibili, in parte provenienti dal Pnrr e il resto attinto da decine di fondi di ogni tipo: quasi tre volte di meno.
Nell’estate della grande siccità, con la portata del Po inferiore per il 60% alla media, il Lago Maggiore al 24% della portata, i campi di tutta Italia riarsi e le pannocchie di granturco che non riescono a uscire dalla guaina, una piovosità ridotta al punto che da gennaio a maggio è caduto il 46% di pioggia in meno rispetto alla media degli ultimi 30 anni (al Nord il deficit è del 60 per cento), la Coldiretti che ha quantificato in 3 miliardi le perdite per l’agricoltura e il centro studi Ref Ricerche ha calcolato che l’industria perderebbe 5 miliardi di fatturato per ogni punto percentuale di razionamento dell’acqua, ecco che nel mezzo di questa tempesta perfetta la scarsità di fondi finanziari è quanto di peggio potesse accadere. Così, mentre il mese di giugno è stato il secondo più caldo mai registrato in media europea con una temperatura superiore di 1,6 gradi alla media (per effetto dei valori estremi fatti registrare in Spagna, Francia e Italia dove la maggiore temperatura è stato di quasi 3 gradi), è ricominciata la battaglia per i finanziamenti necessari al risanamento idrico. Una competizione cominciata anni fa, fra mille passi falsi: si pensi che al “Piano nazionale di interventi infrastrutturali e per la sicurezza del settore idrico” non erano stati assegnati inizialmente, nel 2017, che 100 milioni per dieci anni, e solo con la buona volontà di diversi ministri e altri stakeholder si erano sommate altre fonti finanziarie fino a uno stanziamento di 2,1 miliardi programmati dal 2018 al 2023.
Controllo della risorsa idrica: troppi enti e responsabilità divise
Ma la battaglia, come si è visto dalle cifre iniziali, è tutt’altro che vinta. Intanto, la situazione andrebbe migliorata dal punto di vista istituzionale: come ha ricordato il ministro Giovannini in audizione parlamentare il 5 luglio, la parcellizzazione degli attori coinvolti e degli enti gestori è scoraggiante. Al ministero per le Infrastrutture competerebbero infatti le attività per la gestione delle risorse idriche, senonché deve coordinarsi con il ministero della Transizione ecologica per quanto riguarda la regolazione ambientale e la politica energetica, con il ministero dell’Agricoltura per la pianificazione dei fabbisogni irrigui, con l’autorità di settore Arera (solo recentemente investita anche della responsabilità per la risorsa acqua) per la regolazione economica, con sette autorità di distretto dei bacini idrografici, oltre che naturalmente con le regioni in qualità di concedenti la gestione del servizio idrico nonché con i concessionari stessi spesso del tutto insufficienti come organizzazione, competenza e rapidità di esecuzione. Infine, il tema dei ristori con finanziamenti del Fondo di Solidarietà nazionale per gli agricoltori danneggiati.
Ci sono risorse a sufficienza? Macché, al momento sono disponibili 13 milioni di euro. Un budget palesemente insufficiente.
L’acqua, una battaglia culturale
Anche lasciando da parte le carenze normative, l’Italia, proprio uno dei paesi più bersagliati dalla siccità, è molto indietro nella battaglia culturale per un corretto utilizzo della risorsa idrica. Basti pensare che viene raccolto solo l’11% dell’acqua piovana quando secondo gli studi più accreditati se ne potrebbe raccogliere e riutilizzare fino al 30%. C’è poi la celebre stima del 40% di acqua potabile perso lungo gli acquedotti della penisola, carenza contro la quale si indirizza la più concreta iniziativa fra quelle finanziare finora dal Pnrr e rese operative: è infatti partita l’operazione di ammodernamento della rete con 900 milioni di contributo pubblico.
Altra battaglia, quella delle acque reflue, per lo più uscite dai depuratori sostanzialmente abbastanza pulite eppure gettate via, nei fiumi o in mare, senza troppe preoccupazioni per un suo possibile riutilizzo. Dalla mappa interattiva del Water Information System for Europe, dove sono pubblicati i dati sui progressi di ciascun Paese verso gli obiettivi di trattamento delle acque reflue oltre alla protezione dei sistemi idrici sensibili, all’utilizzo dei fanghi e alle emissioni di gas serra dal settore, risulta che nei 27 Paesi Ue venga raccolto in media il 90% delle acque reflue urbane, in Italia siamo a meno di un terzo di tale quota. Intanto, paradossalmente si continua a utilizzare acqua potabile anche in agricoltura, magari semplicemente perché costa meno che non l’allaccio a qualche depuratore anche nella stessa zona. Va ricordato che l’agricoltura italiana utilizza il 51% di tutta l’acqua disponibile contro una media europea del 40%.
Trovare soluzioni all’emergenza idrica
Come sempre nei momenti difficili, mentre l’Istat conferma che manca all’appello un miliardo di metri cubi di acqua sui 33 di consumo nazionale, esplodono tensioni malcelate. E l’acqua che scarseggia sembra un simbolo degli egoismi umani che riemergono (è proprio il caso di usare questo temine).
Quando è stata ventilata l’ipotesi di aiutare il Po ricorrendo all’acqua del Garda, la Comunità del lago ha subito protestato. Netto rifiuto anche del presidente della Regione Valle d’Aosta, Erik Lavévaz, alla richiesta in tal senso del collega piemontese Alberto Cirio: «Anche noi abbiamo gravi criticità», è stata la risposta di Monsieur Lavévaz. A livello europeo le cose se possibile vanno ancora peggior: il ministero dell’Agricoltura ha chiesto a fine giugno a Bruxelles di aumentare gli anticipi dei pagamenti dei fondi agricoli comunitari per i comparti più colpiti ma la risposta è stata vaga e interlocutoria.
Insomma, l’estate della grande sete, sullo sfondo di una guerra ai confini dell’Europa che già sta causando una crisi alimentare spaventosa, è anche il momento della verità per una lunga serie di nodi irrisolti che vengono al pettine. In questo quadro si inseriscono storie industriali di progresso che potrebbero rappresentare un futuro migliore.
Nel cantiere di Chiomonte, il principale cantiere italiano della linea ferroviaria Torino-Lione, ad esempio, il Gruppo Webuild ha messo a punto un progetto che prevede di raccogliere le acque sotterranee dei ruscelli all’interno del Tunnel della Maddalena. Queste acque naturali che provengono dalla montagna, per tutto il periodo dell’emergenza idrica, saranno deviate e impiegate per irrigare 12 ettari di vigne della zona.
Il caso del progetto di Chiomonte conferma come un sempre maggior numero di aziende è impegnato in operazioni di economia circolare e contribuisce per la sua parte alla razionalizzazione dell’uso dell’acqua. Si inserisce nella stessa linea anche la proposta di Webuild di avviare un parco desalinizzatori all’altezza dell’emergenza idrica italiana, non a caso sulla scia di analoghe operazioni varate da Paesi mediorientali. Si tratta di investimenti importanti, ovviamente, ma i costi della prolungata emergenza potrebbero essere di gran lunga maggiori.