Politici, economisti, società di ricerca: tutti concordi nel considerare le grandi opere come un volano per lo sviluppo. Ma affinché queste opere possano generare un impatto moltiplicatore sulla crescita economica, assume sempre più rilevanza il verificarsi di una condizione essenziale: l’esistenza di un piano nazionale di sviluppo delle infrastrutture di lungo termine, e soprattutto la capacità di calare gli investimenti nelle infrastrutture in un sistema integrato che coinvolga ad ampio spettro tutti i soggetti pubblici e privati che possono contribuire a tali investimenti.
Alcuni paesi si stanno già muovendo in questa direzione, elaborando strategie di lungo periodo e coinvolgendo anche gli attori privati, quindi le imprese del settore, in modo da ribaltare così il paradigma classico che vede le infrastrutture come opere costose, che prosciugano le finanze degli stati senza contribuire ai bilanci pubblici.
L’esempio di alcuni stati dimostra oggi il contrario, e anzi conferma che le grandi opere sono in grado di rappresentare non solo un’utilità diretta (quella maturata in termini di mobilità più efficiente, scambi commerciali più intensi, ecc.), ma anche un beneficio economico in termini di generazione di reddito.
Il loro ruolo è stato sempre importante e lo è ancor di più in questi anni in cui l’economia mondiale continua a mostrare segnali di incertezza e scarsa crescita, come indicato nell’ultimo outlook del Fondo Monetario Internazionale, che prevede una crescita per il 2016 del 3,1%, in contrazione rispetto al 3,2% del 2015. Il dato, unito alla scarsa efficacia delle politiche monetarie lanciate da numerose banche centrali, conferma che una delle poche leve da attivare per stimolare la crescita è proprio investire in modo più consistente nelle infrastrutture.
È quanto stanno promettendo sia Hillary Clinton che Donald Trump, i due candidati alle presidenziali negli Stati Uniti, e quanto è stato fatto negli ultimi anni in alcuni paesi, come viene approfondito all’interno di una indagine realizzata per la società di consulenza McKinsey da Christopher Heathcote, Ceo del Global Infrastructure Hub, una struttura del G20 che ha come obiettivo quello di migliorare la qualità e la quantità dei progetti infrastrutturali avviati nel mondo.
Lo studio di McKinsey parte da quanto indicato dal Fondo Monetario Internazionale, secondo il quale un aumento dell’1% nella spesa per le infrastrutture porta in media, nei quattro anni successivi, ad un punto percentuale e mezzo di crescita extra del Pil. Ma analizzando i mercati in cui i piani di sviluppo infrastrutturali sono stati effettuati in una logica “integrata” di sistema, il ritorno sul Pil aumenta e in media raggiunte i 2,6 punti percentuale.
In questo processo i privati hanno sicuramente un ruolo decisivo, che viene oggi confermato dall’aumento delle PPP – private public partnership - nella realizzazione di grandi opere. Nel 2015 – indica un report della società Prequin – sono stati conclusi nel mondo più di 660 contratti di partnership pubblico-privato per un valore totale di 350 miliardi di dollari, ma il loro contributo allo sviluppo economico dei Paesi rimane marginale se non è accompagnato da una pubblica amministrazione efficiente e soprattutto capace di creare le condizioni migliori per il lavoro dei privati.
Analizzando le best practices mondiali nell’evoluzione del rapporto tra pubblico e privato in ambito di sviluppo infrastrutturale, McKinsey cita in primo luogo il Regno Unito, definito un pioniere nell’incoraggiare gli investitori privati a entrare nel mercato. Nel 1997 – ricostruisce Christopher Heathcote – il governo Labour appena eletto mise le infrastrutture al centro della sua strategia economica; ma per farlo, dovette accelerare gli investimenti. A quel tempo, infatti, investire nelle infrastrutture era una voce quasi esclusiva del bilancio pubblico e solo pochi progetti erano stati completati dai privati.
Cinque anni più tardi, il Regno Unito vantava il mercato delle Partneship Pubblico-Privato più grande del mondo, con oltre 900 progetti in costruzione o in fase di avviamento. Forte di questa tradizione, il settore privato ha partecipato, anche negli anni a seguire, ad alcuni dei progetti più importanti del Paese come le Olimpiadi di Londra del 2012. Per raggiungere questi risultati l’attività del governo è stata decisiva: oltre a verificare la convenienza di ogni progetto prima di concedere il finanziamento pubblico, il governo istituì la Treasury Taskforce, un gruppo di lavoro e di controllo che rispondeva direttamente al ministro del Tesoro. E questo garantì una selezione e una pianificazione migliori dei progetti.
Dopo il Regno Unito, lo studio McKinsey indica altri due Paesi che sono diventati una guida nella pianificazione dello sviluppo infrastrutturale. È il caso delle Filippine. Quando ha preso il potere nel 2010, l’ex-presidente Benigno Aquino III ha individuato nello sviluppo infrastrutturale una priorità strategica. Il suo governo istituì una unità interna per le PPP, che individuò una lista di progetti da realizzare. Inoltre venne incrementato il budget pubblico da destinare alle infrastrutture che passò dal 2,2% del Pil nel 2012 al 5,1% nel 2016. In questi anni sono stati realizzati 14 progetti e altri 15 sono tuttora in corso. Gli effetti della strategia lanciata da Benigno Aquino III sono stati confermati dal World Economic Forum, che ha certificato il miglioramento della qualità infrastrutturale del Paese, passato dal 2010 ad oggi dal 104° al 90° posto nel ranking mondiale.
Anche la Colombia ha seguito questo percorso virtuoso. Nel 2011, il presidente Juan Manuel Santos ha istituito una Agenzia nazionale per le infrastrutture, mentre il Parlamento nel 2012 ha approvato una legge sul settore che offre strumenti per rendere più agevole l’acquisizione di terreni. Attualmente in Colombia sono state affidate 40 concessioni per la costruzione di strade su terreni vergini per un valore di 25 miliardi di dollari, che – una volta terminate – raddoppieranno i chilometri di strade rispetto al passato. Anche le linee ferroviarie in concessione ai privati sono destinate a raddoppiare, passando da 900 a 2.000 chilometri nei prossimi anni.
«Secondo la rivista specializzata in infrastrutture IJ Global – scrive Christopher Heathcote – nel 2015 Regno Unito, Colombia e Filippine hanno un mercato privato delle infrastrutture (calcolato nel rapporto tra volume delle transazioni e Pil) doppio rispetto alla media internazionale».
Il tema della mancanza di capitali necessari per investire sul settore sembra pertanto solo un alibi. McKinsey calcola infatti che sono disponibili 106 trilioni di dollari di capitali istituzionali, sotto forma di fondi pensione e fondi sovrani. L’Ocse stima che solo l’1,6% di questi fondi è attualmente investito nelle infrastrutture. A questo proposito, una ricerca del Global Infrastructure Hub calcola che il 69% dei fondi di investimento istituzionali sarebbe disponibile ad aumentare le risorse destinate al settore, con un interesse particolare verso i mercati emergenti.