Daniel Gros è un economista tedesco, e membro del Board del Center for European Policy Studies di Bruxelles, uno dei più prestigiosi Think-tank europei che lui stesso ha diretto dal 2000 al 2020. È attualmente consulente del Parlamento Europeo, mentre in passato ha lavorato per il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea.
«I grandi progetti infrastrutturali, in America come in Europa, saranno la base su cui imperniare la ripresa quando questa pandemia sarà davvero dietro le spalle». Per Daniel Gros, l’economista tedesco che è membro del Board del Center for European Policy Studies di Bruxelles, uno dei più prestigiosi think-tank europei, e che ha alle spalle, tra l’altro, un lungo periodo di lavoro al Fondo Monetario Internazionale, gli investimenti in infrastrutture – tra i tanti altri vantaggi – sono più vantaggiosi di quelli manifatturieri sotto il profilo dell’inflazione perché non creano prodotti sui quali poi potranno innescarsi aumenti dei prezzi. Invece, «migliorano l’ossatura del Paese, velocizzano le comunicazioni, creano insomma le premesse per una crescita sostenuta, robusta e duratura. Il problema è che bisogna saperli fare».
A cosa si riferisce, professore?
«Per una singolare coincidenza, negli Stati Uniti e in Europa, in particolare in Germania che è il Paese più forte del continente, si è come persa l’abitudine – tanti sono i ritardi accumulati – alla costruzione rapida ed economica delle infrastrutture di base: dighe, strade, ferrovie, porti, aeroporti e via dicendo. Si è addirittura persa la capacità progettuale, addirittura non si trovano – meglio, non si trovavano fino a tempi molto recenti – architetti e ingegneri specializzati. Tutto questo per motivi diversi: in Germania sicuramente per la scarsa, troppo scarsa, volontà politica di impegnare fondi pubblici, per un malinteso senso del risparmio. Serviva la voce in Europa del premier italiano Mario Draghi che finalmente ha invitato tutti i leader a distinguere fra debito buono e debito cattivo, e quello per costruire infrastrutture è sicuramente debito buono. E serviva anche una recessione brutale come quella che ha portato il Covid. Infine, un piano infrastrutturale è partito in Germania che è subito divenuto il fiore all’occhiello del nuovo governo Scholz».
E in America? L’amministrazione Biden è riuscita a far approvare qualche settimana fa…
«Sì, gli interventi pubblici americani per far fronte alla crisi sono passati senza troppi problemi nella prima fase, già con Trump Presidente e poi nella prima fase dell’attuale amministrazione, quando si è trattato di fare assistenza diretta alle famiglie e alle imprese alle prese con la crisi. Soldi benedetti, intendiamoci, oltre 5.000 miliardi di dollari in tre anni, che hanno sostenuto un mercato del lavoro che aveva perso nei momenti più difficili, oltre venti milioni di posti di lavoro, non ancora recuperati del tutto.
Vedete, a differenza che in Europa, in America non c’era una rete di welfare pubblico precostituita, dall’assistenza sanitaria alla cassa integrazione, che è quella che ha sostenuto i Paesi del vecchio continente durante questa crisi spaventosa. Per questo, le cifre sembrano così diverse (il NextGenEU approvato con tanto clamore “vale” non più di 750 miliardi di euro, circa 900 miliardi di dollari, ndr). In America si è dovuto inventare tutto: l’assistenza ai cittadini con elargizioni dirette, alle imprese con criteri di sostegno, ai disoccupati con generosi sussidi, agli ammalati con interventi pubblici d’urgenza. Non senza alcuni paradossi: si è detto, non senza ragione, che quando l’economia è ripartita, in tanti hanno rifiutato il posto di lavoro perché era più conveniente per loro restare in casa e intascare il sussidio. Ora tutto questo si sta lentamente dissolvendo. Il problema è che è arrivato l’Afghanistan».
L’Afghanistan?
«Sì, le ricadute politiche interne della ritirata di quest’estate sono state così pesanti per il presidente che la sua amministrazione non è riuscita più a far approvare provvedimenti impegnativi per diversi mesi, e questo proprio quando si doveva passare alla fase due degli interventi, ovvero i nostri investimenti in infrastrutture per rendere il Paese, gli Stati Uniti, più efficienti e più resilienti nell’eventualità di nuove crisi sanitarie ed economiche.
Ora, anche da questo punto di vista c’è una lenta normalizzazione: Biden ha potuto firmare la definitiva promulgazione del primo progetto di infrastrutture da 1.300 miliardi l’8 dicembre 2021. Ne resta in sospeso un secondo, di poco inferiore, specializzato nei servizi alla persona: nuovi ospedali, nuove scuole, nuovi luoghi di assistenza per anziani. Probabilmente alla fine passerà, ma i tempi si sono allungati di molto. Nel frattempo, bisogna comunque andare avanti con i progetti finanziati dal primo piano, che non sono oggettivamente pochi specie se si troverà il modo di ottimizzare i costi».