«Il progetto di Trump per un deciso miglioramento dell’apparato infrastrutturale dell’America era una delle parti migliori del programma economico del Presidente, oserei forse dire una delle poche buone». Perché parla al passato? «Perché potrebbe essere arduo far passare al Congresso le leggi e gli stanziamenti connessi con la realizzazione del piano (…)».
Arduo ma non impossibile, secondo Eric S. Maskin, economista di Harvard, che ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2007 proprio per i suoi studi sull’allocazione delle risorse in ambiente incerto. Il professore ritiene infatti che, nonostante le difficoltà, una via di uscita ci sia e che vada trovata per il bene dell’America.
Ma perché il Congresso dovrebbe bloccare i progetti infrastrutturali del Presidente?
«Vede, che in America ci sia un urgente bisogno di rinnovare le infrastrutture – porti, aeroporti, strade, gallerie, autostrade, dighe, ponti, viadotti – è sotto gli occhi di tutti.. Ma ogni singolo lavoro ha bisogno dell’approvazione parlamentare. Il partito repubblicano, quello tradizionale intendo e non quello che ha portato al potere Trump, è da sempre restìo ad impegnare risorse pubbliche. Trump lo sa, e per implementare il suo progetto da 1.000 miliardi di dollari di investimenti, un progetto ambizioso che lascerebbe veramente il segno, sta cercando nuove strade. Il Presidente, inoltre, vuole coinvolgere i privati negli investimenti, però lo scontro in questo caso potrebbe essere con i democratici, che sospettano che dietro questo disegno ci sia la volontà di arricchire i grandi costruttori. Insomma, una specie di labirinto. Però, appunto come il labirinto, l’uscita non è chiusa, esiste, e non è detto che non venga trovata, nell’interesse dell’America».
Ma quale può essere la soluzione?
«Che ci sia da distribuire risorse pubbliche è fuori di dubbio. Un esempio che facevo sempre ai miei studenti era quello di una mamma che deve distribuire le fette di torta fra i vari figli. Il suo scopo è di fare tutti i figli felici, ma ognuno accusa l’altro di prendersi la fetta più grossa. E la mamma non riusciva a trovare una via d’uscita, una soluzione. Alla fine faceva tagliare la torta a un figlio, e un altro sceglieva la fetta ritenendo di fare la scelta giusta. Insomma, la parabola vuol dire semplicemente che bisogna coinvolgere tutte le parti interessate nell’operazione, e far sì che ognuna – industrie, costruttori, amministrazioni centrali e regionali, aziende di servizi, concessionarie – si ritenga soddisfatta, pensi che la torta è stata distribuita equamente, onestamente e senza secondi fini. Una soluzione, ripeto, può essere trovata».
Professore, le varie riforme annunciate dall’amministrazione Trump chiamano in causa diversi settori, oltre a quello infrastrutturale. Un tema molto dibattuto negli Usa è quello del protezionismo che si lega anche alla globalizzazione. Quanto contano ancora oggi gli effetti della globalizzazione sullo sviluppo economico?
«Attualmente mi sto esercitando sul tema della globalizzazione, perché è abbastanza paradossale che un fenomeno nato per diffondere lavoro e ricchezza, abbia finito invece con l’alimentare diseguaglianze, scontentezze, addirittura guerre. Anche qui, come nel caso precedente, è un problema di prospettiva, di vedere da quale parte si guarda la situazione. E di trovare soluzioni eque.
La riduzione del gap fra chi ha troppo e chi ha troppo poco, in alcuni Paesi ha funzionato, in altri invece il differenziale si è accentuato con conseguenze insopportabili. Una delle possibili conclusioni è che le diseguaglianze si approfondiscono laddove diminuisce la preparazione culturale e professionale delle genti interessate. Per esempio, il Messico nel 1995 ha aderito a quello che allora si chiamava Gatt (General Agreement on Tariff and Trade) e poi sarebbe diventato il WTO. Tutto è andato bene per i primi cinque anni, in realtà fino al passaggio del secolo, perché si è assistito in effetti intanto all’abbattimento del 50% delle tariffe, dei dazi e degli altri ostacoli all’interscambio da e per il Messico. Molti hanno beneficiato di questo, e lo stipendio dei “colletti bianchi” è aumentato in media del 30% sempre nei primi cinque anni. Però, allo stesso tempo, gli stipendi degli operai sono rimasti bloccati. Le sembra una situazione eticamente accettabile?»
Certo che no. Però va anche detto che in media le condizioni di sviluppo e di crescita economica del Messico, per restare al suo esempio, hanno conosciuto una vistosa accelerazione. Cosa devono fare gli operai messicani, allora?
«Se potessero studiare, sarebbero più preparati, e potrebbero aspirare a qualcosa di più, per godere dei benefici della globalizzazione. Non è solo la magia di comprare un telefonino creato in California e assemblato in Cina. Dovrebbe essere un più diffuso miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Molte promesse sono state fatte in nome della globalizzazione, in particolare nei Paesi poveri. E in realtà a molti è andata mediamente bene, pensi all’India e alla Cina. Ma il fatto che perfino in Cina ci siano focolai di protesta politica contro i governanti per i vizi della globalizzazione, ci deve far riflettere sui criteri che sono ancora da definire per permettere a tutti di godere davvero dei benefici di un mondo unito. Viviamo in un pianeta dove le telecomunicazioni costano ormai virtualmente zero – e infatti se sono a New York e chiamo il call centre della Motorola mi rispondono da Bangalore e sono perfettamente in grado di assistermi – ma quel call centre si trova dove la vera comunicazione deve ancora migliorare».
Una delle vie maestre, diceva, è la massima diffusione possibile dell’educazione.
«Il 38% degli adulti africani sono analfabeti, con punte in certi Paesi del 50%. Chi è privo di un'adeguata preparazione è inesorabilmente escluso dal processo di globalizzazione. Perciò i governi dei Paesi in via di sviluppo in primis ma anche di quelli industrializzati, devono preoccuparsi dell'istruzione e del training della loro gente. Qualche successo c'è: nel 1970 il 30% dei bambini del Sudamerica andava alla scuola primaria, oggi l’88%. Il miglioramento delle condizioni di istruzione, voglio precisare, non va lasciato al libero mercato né alle aziende, ma deve essere compito dei governi e delle organizzazioni internazionali. Il fatto è che l’attuale ondata di globalizzazione è molto diversa da quelle che l’hanno preceduta».
Perché, ci sono state altre globalizzazioni?
«Ma certo, una ogni secolo a partire dall’impero romano. La globalizzazione di oggi è molto diversa da quelle della prima metà del XIX secolo, portata dal colonialismo, o dei primi anni del XX secolo quando alla vigilia della Prima Guerra Mondiale si respirava un diffuso benessere. Allora, nei Paesi più poveri del mondo venivano ingaggiate grandi masse di persone con scarsa o nulla preparazione per metterle al lavoro nei campi, nelle fabbriche, nelle miniere. Con la globalizzazione del XXI secolo, è tutta un'altra cosa. Viene richiesta preparazione tecnologica, si sono innalzati gli standard di selezione. È quella che gli economisti chiamano skill bias, pregiudizio verso chi non è preparato. Bisogna essere sempre all'altezza per inserirsi nell’ideazione di un prodotto in Europa, nella sua costruzione in Malesia, nella sua vendita in America. Chi non ha studiato è fuori dal processo produttivo e vede il suo status allontanarsi irrimediabilmente da quello di chi invece, più fortunato, è riuscito a prepararsi adeguatamente. Così si accentuano le diseguaglianze, facendo fallire il processo di globalizzazione. E contro questa deriva devono battersi tutti coloro che hanno a cuore una società più giusta ed equa».