Non si può parlare di previsioni 2016 per il Medio Oriente senza parlare dell’Opec e delle divisioni interne al cartello dei Paesi produttori di petrolio, un’organizzazione «una volta potente», come la definisce Mohamed El-Erian, oggi a capo dell’ufficio economico della tedesca Allianz, senz’altro il più prestigioso economista mediorentale in circolazione.
Sull’Opec continua ad accentrarsi l’attenzione quando si parla di prezzo del petrolio…
«In effetti continua a essere il punto di riferimento, anche se oggi controlla non più del 30% della produzione mondiale contro il 70% degli anni ‘80. È una questione di abitudine, e anche di centralità del Medio Oriente oggi nelle analisi di geopolitica.
L’Opec è anche molto divisa al suo interno, anzi funziona da catalizzatore di alcuni fra i più roventi conflitti esistenti nell’area mediorentale. Uno fra tutti: quello fra Iran e Arabia Saudita. Proprio in chiave anti-iraniana va vista, almeno in parte, la riluttanza saudita a tagliare le quote: vogliono privare Teheran, che vista l’imminente fine delle sanzioni sta per rilanciare la produzione, di una cospicua fonte di guadagno. Questo conflitto non è peraltro l’unico fattore destabilizzante per l’Opec, che ha cominciato ad andare in confusione da quando gli Stati Uniti si sono pesantemente inseriti, grazie allo shale oil, fra i produttori di petrolio (anzi oggi sono diventati i primi con oltre 18 milioni di barili al giorno, ndr). Per il momento, nei Paesi arabi i margini sono ancora positivi, seppur di poco. Ma in diversi Paesi si cominciano a sentire pesantemente le conseguenze di questa situazione».
Tutto questo quali spiragli di ripresa lascia presagire per i Paesi mediorentali?
«Indubbiamente il fattore ribassi del greggio influisce pesantemente sulle previsioni per il 2016. Alcuni Paesi, come la stessa Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, hanno cospicue riserve per fronteggiare le ristrettezze, ma tutti sono in serie difficoltà finanziarie. In Arabia Saudita il deficit è già pari al 20% del Pil. Prova di queste difficoltà è stato l’annuncio di metà dicembre che i Paesi arabi hanno “richiamato” 19 miliardi di dollari in patria: sono i soldi che i fondi sovrani dei Paesi mediorentali assegnavano a grandi gestori internazionali, come Pimco e BlackRock, perché questi li investissero in giro per il mondo e ne ricavassero solidi guadagni. Niente più di tutto questo: i soldi sono stati richiamati in patria perché servono ad aggiustare le finanze dei rispettivi Paesi, soprattutto per continuare il finanziamento delle opere pubbliche che è il maggior impegno per tutta l’area: scuole, case, centrali elettriche ed elettrodotti, dighe, desalinizzatori e potabilizzatori per l’acqua, e via dicendo. Una massiccia opera di riscatto dei Paesi mediorentali che ancora non è compiuta. Senza contare che ora ci saranno da costruire i nuovi pozzi e le pipeline, nonché da rimettere in sesto tutti quelli abbandonati, nell’Iran che uscirà dall’isolamento e già ha fatto sapere di volersi riaffacciare con forza nel mercato petrolifero. Un grande sforzo che dovrà muovere risorse imponenti anche nelle infrastrutture, dove peraltro alcuni Paesi sono già fortemente impegnati. L’intera regione mediorientale ha bisogno di ingenti investimenti infrastrutturali per rispondere alle esigenze della popolazione che cresce in numero e in bisogni di vario genere, da quelli energetici a quelli legati alla mobilità».
Downtown, Dubai
In che direzione vanno questi investimenti?
«In termini infrastrutturali i Paesi del Gulf Cooperation Council investiranno circa 200 miliardi di dollari nei prossimi anni per la mobilità su ferro, realizzando dal nulla migliaia di chilometri di metropolitane e ferrovie. Stiamo parlando, in termini di ammontare, della più grande spesa infrastrutturale pro capite del mondo. L’Arabia Saudita da sola spenderà circa 83 miliardi; 39 miliardi gli Emirati Arabi Uniti e 35 miliardi il Qatar».
Quindi cosa dobbiamo aspettarci per il 2016?
«L’andamento dell’anno sarà ancora legato ai prezzi del petrolio, che resteranno bassi almeno per la prima metà, fino cioè alla prossima riunione dell’Opec di giugno. Certo, ci sono Paesi che soffriranno più degli altri. Fra i Paesi più vulnerabili c’è ad esempio il Bahrain. Il deficit a due cifre del 2015-17 farà salire il debito pubblico a oltre il 65% del Pil. Ma è l’Iraq il Paese con il minor spazio di manovra sui conti pubblici e nella bilancia dei pagamenti. In questo caso, tenuto conto dell’aumento delle spese militari e della sicurezza, è probabile che nel 2016 si assisterà a un aumento ben al di là del limite di guardia del già ampio deficit pubblico».