«Secondo la “Divisione popolazione” dell’Onu, nel 2030 la popolazione mondiale supererà gli otto miliardi e mezzo, un miliardo e mezzo in più di oggi. Bene: da dove sarà generato questo miliardo e mezzo? Per 1,4 miliardi dai Paesi in via di sviluppo. Il resto, gli “spiccioli” verrà da Europa, America, Giappone. Ecco, basterebbe questo dato per capire dove le grandi aziende dovranno indirizzare gli investimenti, dalla manifattura alle infrastrutture».
Jacob A. Frenkel è uno dei principali economisti mondiali. Israeliano di nascita e americano di educazione, è oggi presidente di JP Morgan Chase International nonché del Board of Trustees del Group of Thirty (G-30), dopo essere stato al vertice di AIG e Merrill Lynch International oltre che Governatore della Banca d’Israele. È anche stato membro dell’Economic Advisory Panel della Federal Reserve Bank di New York, ed è stato in passato responsabile della ricerca al Fondo Monetario Internazionale e Professore di Economia Internazionale all’Università di Chicago. Oggi sta concentrando la sua ricerca sui “megatrend”.
Cosa vuol dire “megatrend” e perché sono grandezze importanti ai fini economici?
«Mi rendo conto che è un concetto non facile da digerire in un mondo, il nostro, in cui si pensa solo a breve termine, e questo è valido tipicamente in termini politici ma spesso anche economici. Però dobbiamo fare uno sforzo e pensare a quello che accadrà in un lasso di tempo molto più lungo, perché è lì che dovranno essere indirizzati gli investimenti. Io uso un metodo: pensate alle domande che ci facevamo due o tre anni fa, e pensate a quali sono ancora valide oggi: ecco, quelle ancora valide sono i megatrend. E la demografia è il più importante: tenendo sempre come orizzonte temporale il 2030, la popolazione europea sarà di 786 milioni, quella americana di 381, quella cinese di un miliardo e 432 milioni, quella indiana di 1 miliardo e 572 milioni. Ora la faccio io una domanda: qual è l’area a cui guardare con maggior interesse?».
Ma ritiene che le grandi corporation internazionali siano state pronte a cogliere le nuove opportunità, specialmente con riferimento agli investimenti infrastrutturali?
«Solo in parte. A loro parziale giustificazione devo menzionare la grande rapidità con cui questo cambiamento sta avvenendo. Se un marziano fosse sceso sul pianeta Terra solo 25 anni fa e avesse chiesto “qual è la parte più produttiva del mondo?” la risposta sarebbe stata la seguente: Giappone, Stati Uniti ed Europa assommano il 65-70% di tutta la produzione mondiale, insomma i due terzi del Pil. Se lo stesso amico extraterrestre arrivasse oggi troverebbe una situazione ben cambiata, in cui la quota delle tre aree menzionate è scesa al 45%: 20-25 punti in meno. E la differenza se l’è presa tutta l’Asia. Io stesso ricordo quando avevo l’incarico di redigere l’outlook annuale del Fondo Monetario Internazionale e annotavo che la Cina e l’India producevano non più del 7% mondiale, sembrano ere lontane, oggi superano il 20%. Ecco, questo è un megatrend assolutamente cruciale, bisogna assumerlo come un dato di fatto e smetterla di guardare al pianeta con le stesse lenti che usavamo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale».
Tutta questa ricchezza prodotta dovrebbe contribuire in modo robusto all’eliminazione di diseguaglianze e sacche di povertà. È così?
«Solo in parte. Perché una cosa è produrre ricchezza e un’altra utilizzarla in modo produttivo con investimenti efficienti. La Cina, malgrado tutti gli scossoni che l’hanno attraversata di recente, continua a non utilizzare convenientemente la ricchezza che produce. Secondo me questo è un megatrend perché è un fatto con cui avremo ancora a lungo a che fare. In Cina, per ogni dollaro prodotto, 50 centesimi sono risparmiati, mentre potrebbero essere una locomotiva formidabile di crescita se fossero efficacemente spesi. Non che il modello opposto sia per definizione migliore: in America per ogni dollaro prodotto solo il 18 per cento è risparmiato, qui siamo all’eccesso contrario. Diciamo che un giusto mezzo sarebbe l’ideale».
Vanno forse gestiti meglio i rapporti commerciali tra le economie più sviluppate?
«Da parte occidentale deve esserci un miglioramento degli interscambi con la Cina: dell’intero export americano, oggi il 28% va in Cina, c’è già un miglioramento rispetto al meno del 10 per cento di qualche anno fa, ma gli spazi sono ancora enormi e molto maggiori sono ancora le importazioni. Percentuali analoghe si riscontrano con riferimento all’Europa. Per fortuna sempre più spesso alla domanda “cosa rappresenta la Cina?” non si sente più rispondere “un pericolo” bensì “un’opportunità”. Il gap si sta insomma riducendo: ma di fatto, l’ammontare del commercio fra Cina e il resto dell’Asia è molto maggiore di quello fra Cina e occidente, in un contesto di commercio mondiale che continua a crescere in media del 3,8-3,9 per cento l’anno. Questa crescita è continuata su livelli sostenuti per tutti questi anni a eccezione del 2009, l’anno della grande crisi».
Se il commercio mondiale continua a crescere diffondendo benessere e ricchezza, perché si sente periodicamente riaffiorare l’ondata protezionistica?
«A metà settembre l’istituto tedesco di ricerche economiche Ifo ha confermato che il surplus commerciale della Germania raggiungerà alla fine di quest’anno il record assoluto di 310 miliardi di euro. Bene, negli stessi giorni si sono svolte roboanti proteste giovanili a Berlino contro il trattato di libero commercio con l’America. Perché una nazione di esportatori è così pronta ad opporsi a un trattato di libero scambio? Eppure, e questo è valido in tutto il mondo, l’apertura commerciale è l’unico sicuro viatico verso una migliore crescita».