Dagli Usa, sotto la guida del nuovo Presidente Joe Biden, alla Cina, fino alla stessa Europa, il 2020 è stato l’anno del ritorno dello Stato nell’economia. Dopo venti anni di globalizzazione e ultra-liberismo, che hanno tolto agli stati nazionali poteri e competenze, il pendolo della Storia sembra oscillare di nuovo dall’altra parte. “The State Strikes Back”, lo Stato colpisce ancora, potrebbe essere il titolo dell’anno appena terminato, prendendo a prestito la saga di Guerre Stellari.
Questa nuova stagione porterà a cambiamenti epocali nella società e nel mondo, con un impatto molto forte nel settore delle infrastrutture, sempre più moderne e sempre più sostenibili. Attraverso un’intervista esclusiva Webuildvalue ne parla con Paolo Taticchi, uno dei più importanti giovani professori italiani nel mondo: Professor for Strategy and Sustanaibility e vice preside del corso MBA alla UCL, University College of London, Taticchi è stato inserito tra i professori under 40 più influenti del pianeta.
Professor Taticchi, il Nuovo Mondo che nascerà dalle “macerie” del Covid passerà anche attraverso gli investimenti nelle grandi infrastrutture. Ci aspetta una nuova stagione di grandi opere?
«Credo proprio di sì, e lo reputo auspicabile. La strada era già tracciata prima della pandemia e dobbiamo continuare a percorrerla. Investire sulle grandi infrastrutture è fondamentale per uno sviluppo sostenibile e per affrontare molte delle crisi future: i cambiamenti climatici, la transizione energetica, la digitalizzazione. Le grandi opere sono fondamentali per far ripartire l’economia.
L’IMF ha stimato a ottobre che investimenti pubblici su paesi sviluppati ed in via sviluppo per un importo pari al 1% potrebbero far crescere le economie di questi paesi fino 2,7% del GDP in due anni, portando alla creazione di oltre 20 milioni di posti di lavoro.
Il mio suggerimento a chi governa è di dare la priorità a tutti i progetti legati alle “Smart Cities” e a quei progetti che non generano solo un costo per lo stato, ma fanno da volano per le economie locali, in sostanza le infrastrutture strategiche».
L’Europa ha giocato tutte le sue carte di ripresa sul Recovery Fund, il primo sforzo davvero comune da quando la Ue è nata. Cosa ne pensa?
«Penso che il Recovery Fund debba essere proprio un impegno sulle infrastrutture: i 1.800 miliardi di euro nei prossimi sette anni costituiscono il capitale pubblico che permetterà all’Europa di riparare i danni economici e sociali creati dalla Pandemia. C’è bisogno di costruire infrastrutture moderne, resilienti e sostenibili nei vari paesi. Investire correttamente questi capitali determinerà la competitività dei paesi europei nei prossimi decenni.
Gli strumenti pianificati sono un mix di fondo perduto e garanzie: questa modalità permetterà ai paesi di mobilizzare anche i capitali privati. La decarbonizzazione dell’economia, con il passaggio all’elettrico da combustibili fossili, e la digitalizzazione della società sono i due ambiti che assorbiranno il grosso delle risorse. Trovo molto interessante e strategico che ci siano quasi 2 miliardi a fondo perduto destinati alle protezioni civili nazionali, così potranno reagire a situazioni di crisi. Una cosa che abbiamo capito dalla pandemia è che non eravamo pronti a gestirla, e che in futuro dobbiamo farci trovare pronti».
Quanto è importante la sostenibilità per le grandi imprese multinazionali, soprattutto per i costruttori di infrastrutture complesse?
«È tutto, ma come sempre le strategie variano di azienda in azienda. Alcuni gruppi hanno compreso pienamente le grandi opportunità legate alla sostenibilità, e investito realmente per sviluppare le proprie competenze e la propria progettualità in tal senso. Altri gruppi invece hanno adottato un approccio più reattivo che pro-attivo. Oggi la pressione sulle grande aziende affinché siano sostenibili arriva da tutti gli stakeholder: clienti, governi, fornitori. I primi portatori di interessi sono gli investitori-azionisti, specie in caso di società quotate: costoro hanno compreso che le aziende più sostenibili sono anche quelle che in Borsa salgono di più.
Nelle costruzioni, poi, l’assegnazione dei progetti sarà sempre più guidata dai criteri di sostenibilità che dal prezzo. Non vincerà un appalto chi banalmente avrà offerto il costo più basso per il committente ma chi sarà in grado di costruire inquinando di meno, utilizzando materiali ecologici, ecc. Sono convinto che nei prossimi dieci anni vedremo grandi aziende perdere significativamente competitività, o addirittura fallire, perché non saranno in grado di reinventarsi diventando sostenibili. Quando si parla di sostenibilità, il trend è esponenziale, non lineare – spero che le aziende italiane capiscano la portata di questa rivoluzione».
La crisi del Covid riscriverà anche gli equilibri in termini di business tra le grandi aziende multinazionali?
«La competitività delle imprese è un fattore sempre in continua evoluzione, perché cambia mentre cambia il mondo esterno. In questo settore oggi vedo 3 aree principali di cambiamento, non particolarmente legate al Covid: la globalizzazione come la conoscevamo non esiste più, e molti paesi che rappresentano importanti mercati favoriscono oggi le imprese locali o di paesi “amici”. Secondo, la necessità di crescere e acquisire nuove competenze porta le grandi aziende molto spesso a favorire strategie di crescita inorganica (tramite acquisizioni e fusioni), piuttosto che organica. Terzo, l’acquisizione di nuove competenze legate alla sostenibilità, ai dati, alla tecnologia e ai nuovi modelli di business».
Oltre a questa grande ondata di finanziamenti pubblici, gli investitori privati sono interessati a puntare sui grandi progetti europei?
«Sempre di più i grandi progetti sono finanziati tramite partnership di natura pubblico-privata (PPP). Queste forme sono estremamente complesse, perché le logiche progettuali del mondo pubblico hanno interessi divergenti da quelli privati. Ma pubblico e privato hanno la necessità di incontrarsi. Negli ultimi 15 anni in Europa oltre 1.000 progetti sono stati finanziati tramite PPP, e questo tipo di finanziamento è fortemente in crescita. A oggi in Italia, la Pedemontana Veneta è stato il più grosso progetto finanziato con questo meccanismo».
Lei vive e lavora a Londra, una città che ha subito profondi cambiamenti negli ultimi anni grazie anche a investimenti considerevoli. Le grandi città, come Londra e Parigi possono inseguire modelli sostenibili di vita e livelli qualitativi di benessere pur restando delle megacity?
«Me lo auguro, anche perché il trend è chiaro in tal senso: la vita si sposta nelle grandi città, ed è per questo che dobbiamo avere città “smart”, con un limitato impatto sull’ambiente e che usano la tecnologia e i dati in tempo reale per capire i bisogni dei cittadini e regolare l’offerta dei servizi.
L’obiettivo ultimo di una trasformazione in “smart city” è quello di alzare la qualità della vita ai propri cittadini con il minor impatto ambientale possibile. Per le città in via di sviluppo questo cambiamento è molto difficile da sostenere perché hanno uno sviluppo troppo tumultuoso, per le città europee questo cambiamento è ormai un fenomeno entrato nel vissuto. Londra è in vetta alle classifiche delle “smart city” globali, ma anche Milano si sta distinguendo sempre più per progetti moderni e ambiziosi».
Si parla spesso di talenti e di dare spazio ai giovani. Quali sono a suo avviso i mercati più vitali per i giovani talenti in Europa e quali le esperienze più interessanti?
«In Europa, Londra continuerà ad attrarre tanti giovani anche dopo la Brexit. L’ecosistema delle start-up è unico in Europa (anche se Berlino e Parigi sono in crescita), come unica è la concentrazione delle banche, del fintech e di istituzioni accademiche di eccellenza mondiali. Basti pensare che quattro delle migliori università del mondo sono a Londra o nelle vicinanze: Cambridge, Imperial College of London, Oxford e University College of London, il mio ateneo. Amsterdam, grazie agli sgravi fiscali, sta attirando tante corporation e oggi ci sono numerose le offerte di lavoro. I paesi nordici attirano per la qualità della vita».
Eppure, sulla carta, è l’Italia il paese con la migliore qualità della vita: l’italian lifestyle è invidiato ovunque…
«Sono molto preoccupato che l’Italia non attragga giovani talenti dagli altri paesi: tutti sognano una vacanza in Italia, e tutti amano l’Italia – ma in pochissimi cercano di venirci a lavorare. Questo dovrebbe far riflettere chi ci governa: da anni sostengo che il vero problema del nostro paese non è la fuga dei cervelli, ma il loro mancato ingresso».
Professor (Education) in Strategy and Sustanaibility e Deputy Director (MBA and International) alla UCL School of Management di Londra. Nel 2010 è stato il più giovane direttore di MBA al mondo. Nel 2018, la rivista specializzata americana “Poets & Quants” lo ha indicato come uno dei 40 professori under 40 più influenti al mondo. È uno dei massimi esperti di sostenibilità applicata alle grandi aziende.