A chi nasce con il nome Galbraith, figlio di uno degli economisti più influenti del secolo appena passato, la vita deve sembrare una strada tutta in salita, nel tentativo di raggiungere ed uguagliare la fama paterna che lo sovrasta.
James Galbraith ha preso di petto il suo destino e ha scelto la stessa professione del padre John Kenneth. Seguace dello stesso pensiero keynesiano che ispirava il genitore, continua a difendere il principio dell’interventismo statale e istituzionale a supporto delle fasce della popolazione più colpite da una crisi economica, come ha fatto l’anno scorso schierandosi a difesa del governo Tsipras in Grecia, e del suo ex-collega alla Università di Austin in Texas, l’economista greco Yanis Varoufakis.
Nella campagna presidenziale in corso negli Usa, Galbraith, che in Italia ha l’onore di essere stato introdotto nell’Accademia dei Lincei, è uno strenuo difensore dell’idea che il governo USA debba intervenire con sostanziali investimenti per rinnovare le infrastrutture del Paese, e rilanciare la qualità e il livello dell’occupazione.
Professor Galbraith, un ambizioso programma di stimolo, l’American Recovery and Reinvestment Act, fu finanziato con 797 miliardi di dollari dal presidente Obama già all’inizio del suo primo mandato nel 2009. Perché?
«La disoccupazione negli Usa nel 2009 aveva superato il livello del 10%, le industrie erano ferme e gli scambi con l’estero congelati dalla paura che aveva invaso tutte le piazze finanziarie del mondo. L’unica strategia di riscossa era quella di puntare sulla realizzazione di grandi opere pubbliche di cui il Paese aveva un disperato bisogno».
Ha funzionato?
«Gli economisti sono divisi al riguardo da opinioni diverse. Io cito soltanto il risultato ottenuto sull’impiego: oggi abbiamo una disoccupazione al di sotto del 5%. Nessun altro paese tra le democrazie occidentali colpite dalla crisi è stato capace di rimbalzare in questo campo con la stessa efficacia, perché la produzione industriale non è tornata ai livelli pre-crisi. La differenza è stata fatta in America in gran parte grazie agli investimenti ad opera dello Stato».
Lo scorso dicembre Obama ha rilanciato con il Fast Act: 305 miliardi nei prossimi cinque anni nel solo settore delle infrastrutture. Quali sono le promesse del Fast Act?
«La sistemazione della rete stradale esistente, ma anche il parallelo potenziamento dei trasporti su rotaia, che negli Usa sono quasi inesistenti dopo un secolo di dominio di automobili per la mobilità privata e di camion per lo spostamento delle merci. Poi l’ammodernamento e il potenziamento dei porti. Infine c’è una lunga lista di finanziamenti per soluzioni alternative che riescano a risolvere il problema dell’immobilità del traffico attuale, e quindi l’incentivazione a cambiare il modello attuale che regola la nostra mobilità».
Il risultato delle elezioni potrà cambiare il corso degli investimenti?
«Molti dei candidati stanno parlando nella campagna elettorale del bisogno di investire in infrastrutture. Il piano più ambizioso è stato annunciato da Bernie Sanders con mille miliardi di dollari, il che forse ha stimolato Hillary Clinton a rilanciare il suo quasi a quota 750 miliardi.
In campo repubblicano il senatore Ted Cruz insiste invece sul bisogno di tagliare la spesa pubblica e pareggiare il bilancio, una strategia che a mio avviso è molto rischiosa in tempi di crescita debole del Pil. In quanto a Donald Trump continua a dire che l’America ha le infrastrutture di un Paese del terzo mondo, ma è davvero difficile prevedere quello che farebbe da Presidente».
Quali sono le opere prioritarie da realizzare?
«L’elenco è purtroppo molto lungo, perché la concentrazione sugli interessi privati in America ha fatto sì che per molti decenni le infrastrutture fossero trascurate.
Sappiamo della gravità delle condizioni in cui versano strade, autostrade e ponti, e per chi viaggia fuori dagli Usa il confronto tra alcuni dei nostri aeroporti e quelli di molti stati stranieri sta diventando imbarazzante. Ma se dovessi indicare in linea generale il settore di investimento più urgente per il nostro tempo direi la protezione dell’ambiente. Abbiamo un disperato bisogno di limitare le emissioni che comportano l’effetto serra, e per farlo dobbiamo ridisegnare l’intero progetto della mobilità: costruire linee ferroviarie veloci ed affidabili in tutto il paese, puntare su reti elettrificate che riducano il ricorso agli idrocarburi, passare da una mentalità che privilegia il trasporto privato ad una che premia quello pubblico».