«L’Italia sconta un grandissimo ritardo infrastrutturale, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni».
Andrea Sironi, dal 2012 rettore dell’Università Bocconi di Milano, uno dei più prestigiosi atenei italiani, ha un’idea ben precisa su dove nasca l’arretratezza italiana in termini di infrastrutture e grandi opere.
«Il ritardo più grande – spiega – si è accumulato negli anni della crisi. Mentre Paesi come il Regno Unito e la Spagna hanno sposato politiche di aumento del debito pubblico per fare investimenti infrastrutturali, in Italia tutte le risorse sono andate per coprire il deficit di spesa corrente e quindi non hanno dato alcun beneficio all’economia reale. E questo gap, adesso, va recuperato».
In che modo?
«È ovvio che il settore pubblico deve ricominciare a investire nelle infrastrutture. A livello europeo il Piano Juncker è sicuramente un’opportunità anche se si gioca molto sull’effetto leva e quindi sulla partecipazione finanziaria dei soggetti privati. In termini politici, rimane però un segnale importante di sensibilità verso il tema degli investimenti in Europa».
Da dove altro può arrivare la spinta a nuovi investimenti nel settore infrastrutturale?
«Penso di più al solo settore privato, sia interno che esterno. In Asia e Medio Oriente i grossi fondi sono disposti a investire e registriamo un sempre maggiore interesse verso l’Italia».
Industria alimentare
Quali settori agganceranno prima di altri la ripresa?
«Inevitabilmente chi ha sviluppato una maggiore propensione all’export. Come spesso accade, la crisi ha fatto selezione lasciando sul campo le imprese più competitive. E quelle che oggi hanno un passo in più restano quelle che sono state capaci di compensare il calo del mercato domestico con una maggiore presenza sui mercati internazionali. In questa categoria metto anche le costruzioni, il real estate e i player infrastrutturali. Se da un lato si parla spesso di crisi edilizia italiana, allo stesso tempo si ignora che molte grandi imprese italiane del settore operano ormai all’estero».
Tornando ai risultati economici, cosa è mancato nel 2015 al Paese per far ripartire in modo solido la ripresa?
«I nodi sono sempre gli stessi. C’è il tema della crescita che rimane al di sotto della media dei principali Paesi europei e c’è il tema degli investimenti fissi ancora troppo bassi per trainare la ripresa. Detto questo, i segnali positivi ci sono e riguardano principalmente il miglioramento delle esportazioni, la crescita degli investimenti dall’estero, la riduzione del tasso di disoccupazione. A questo va aggiunto un sentiment positivo di molti imprenditori, che guardano al 2016 con ottimismo».
Quali sono le questioni più critiche ancora sul tavolo?
«Il tema più forte rimane il divario tra Nord e Sud che, negli anni della crisi, si è acuito ulteriormente. In Europa ci sono solo sei regioni dove la disoccupazione giovanile supera il 50%. Quattro di queste sono italiane e sono Calabria, Campania, Sicilia e Puglia. Finché questa spaccatura è così evidente, le speranze di crescita sono a rischio».
Stazione metro Garibaldi, Napoli
Come guarda al 2016?
«Con ottimismo. Il punto di svolta l’abbiamo vissuto nel 2015, quando dopo anni di recessione il Pil ha ricominciato a crescere. Per l’anno appena iniziato ci aspettiamo che questa crescita si consolidi arrivando ad un +1,5% del Prodotto interno lordo».
La Fed ha cominciato ad alzare il tasso di interesse. La nuova politica monetaria avrà un effetto negativo sulla nostra debole ripresa?
«Non credo. Da parte sua la Banca Centrale Europea ha confermato l’intenzione di proseguire con le misure di stimolo all’economia. Questo combatte la deflazione e allo stesso tempo favorisce gli investimenti. Per quanto riguarda la Federal Reserve, il rialzo dei tassi non mi preoccupa, anzi l’apprezzamento del dollaro che inevitabilmente ne deriverà rende l’Eurozona ancora più competitiva».