«Sono vent’anni che in Germania non parte un grande progetto infrastrutturale, e le strutture del Paese cominciano a dare segnali preoccupanti di invecchiamento. Questo è un elemento su cui dovremmo riflettere».
Paul De Grauwe, belga di nascita, 71 anni, è attualmente Direttore dell’European Institute della London School of Economics. È considerato il capofila della scuola degli economisti neo-keynesiani, ma è soprattutto un attento e obiettivo analista dei programmi e degli ostacoli per portare definitivamente fuori dalla crisi il Vecchio Continente. Ed è convinto, non certo da oggi, che la ricetta adottata da Bruxelles, quella del rigore del bilancio a tutti i costi e quindi del blocco ai grandi investimenti pubblici, sia stata sbagliata e abbia prolungato oltre ogni limite la recessione in tanti Paesi dell’area.
Per uscire dalla crisi, sostiene, bisogna investire e stimolare la crescita, due argomenti contro i quali una larga parte delle economie “nordiche” si sono sempre opposte. «Solo ora scorgiamo qualche segnale di ravvedimento, in parte provocato dall’uscita di Schäuble dalla guida del ministero dell’Economia tedesco e dalle difficoltà politiche della stessa Merkel, ma questo ripensamento dovrebbe essere più convinto e strutturale per consentire un vero rilancio degli investimenti infrastrutturali in tutto il continente, a partire dalla stessa Germania come le dicevo».
Guardando all’altra parte dell’oceano, il Presidente americano Donald Trump ha basato la sua campagna elettorale proprio su un maxi piano di infrastrutture, mille miliardi si diceva. Non è che, a un anno di distanza, si sia visto molto per la verità…
«No, non sarei pessimista, Qualcosa è partito, e la determinazione nel portare avanti un’altra parte qualificante del programma come la riforma fiscale, pur con diverse modifiche ed emendamenti, ci dice che tutto sommato questo Presidente quando vuole ha la capacità politica di lanciare nei fatti progetti ambiziosi. Certo, occorre tempo. Come è emerso al forum “North American Infrastructure Leadership” che si è tenuto a fine ottobre a San Francisco, sul piano infrastrutturale ci si sta muovendo e i primi finanziamenti stanno arrivando. Il problema resta l’Europa. Secondo i miei calcoli il moltiplicatore di una politica fiscale restrittiva in un momento di crisi è pari a 1,4. Per capirci, un miglioramento dell’avanzo primario (quindi nei tagli sulla spesa) di un punto percentuale si traduce in una contrazione del Pil di almeno il 2,8 per cento. Viceversa, enorme è la capacità di sviluppo portata da un serio programma infrastrutturale».
Lei parlava di capacità politica. Forse si sta per avverare la profezia di Jean Monnet, uno tra i padri fondatori dell’Ue: “L’Europa si forgerà nelle crisi e sarà il risultato delle soluzioni sviluppate per superarle”. Di quale gesto politico avrebbe bisogno questa europa?
«Beh, per esempio sarebbe decisiva per sbloccare questa situazione, una partecipazione condivisa, almeno parziale, del debito pubblico dei Paesi europei. Questo tra l’altro eviterebbe il pericolo odierno che un Paese fra i più deboli si avvicini al collasso senza protezione, con tutte le conseguenze connesse in termini di panico e di fuga dei risparmiatori, e con la possibilità finale che tutta l’Unione venga travolta dalla crisi, anche i Paesi che oggi sono più forti. I vantaggi di un’unione fiscale sarebbero molteplici: non solo si supererebbe il problema del rifinanziamento dei debiti, attraverso la condivisione del rischio, ma la centralizzazione potrebbe neutralizzare gli shock asimmetrici all’interno dell’area euro attraverso i trasferimenti fiscali. Certo, la transferunion è l’incubo della Germania che pone la questione dell’azzardo morale (la tendenza di chi è assicurato a intraprendere comportamenti rischiosi, ndr). Temono cioè che tali trasferimenti possano trasformarsi da congiunturali a strutturali a favore dei Paesi più deboli, diventando una pratica permanente che svantaggia quelli più forti».
Ma ritiene che ci siano le condizioni perché tutto questo pregiudizio sia superato?
«Ormai è evidente che l’Europa non era un’area valutaria ottimale, non risponde ai requisiti di omogeneità dei mercati del lavoro e non c’è sufficiente solidarietà per compensare le divergenze. L’unificazione monetaria è figlia di impeti politici piuttosto che di valutazioni di carattere economico. Però ormai c’è, e occorre convincersene e serrare i tempi perché tutto questo abbia un senso per coglierne i risultati positivi a partire ovviamente dalla stabilità monetaria, senza pensare di poter riportare indietro le lancette della storia. Mentre smantellare il sistema monetario degli anni ‘90 può aver avuto un senso, smantellare l’euro adesso avrebbe profondi e devastanti effetti politici, economici e sociali».
Torniamo all’Europa delle infrastrutture, o meglio delle mancate infrastrutture: lei parlava di una compartecipazione del debito, ma intendeva una totale “comunanza” o parziale?
«Parziale, molto parziale, come dicevo già prima, l’unica che ha la speranza di essere oggetto dell’approvazione dei “soci forti” dell’euro. Gli opponenti argomentano spesso che, in assenza di una vera Unione europea, partire con l’unione monetaria “rafforzata” sarebbe come porre il carro dinanzi ai buoi. Ma io dico che viceversa sarebbe un buon inizio. Certo, ripeto, si partirebbe mettendo in comune, per esempio, il 20% del debito. Questo pool di denaro potrebbe essere amministrato dal ministro delle Finanze europeo, che assumerebbe in sé anche la carica di Presidente dell’Eurogruppo, e su di esso si potrebbe cominciare a lavorare con l’emissione di eurobond e il conseguente finanziamento di grandi programmi infrastrutturali di respiro europeo. Eventualmente si può affiancare al ministro un’Authority di controllo, che a sua volta agirebbe di concerto con la Banca centrale europea, che – detto per inciso – con il quantitative easing ha finalmente assolto al suo compito di prestatore di ultima istanza dando un contributo notevole non solo alla fine della crisi ma anche all’unificazione europea. L’Authority in questione dovrebbe avere gli strumenti necessari per avvertire prima e aiutare subito dopo i Paesi che per motivi congiunturali stanno eccedendo i parametri debitori. Vede, mettere in comune il debito, così come fece Alexander Hamilton negli Stati Uniti oltre 200 anni fa per riparare i danni della guerra, è il modo più sicuro per avviarsi verso gli Stati Uniti d’Europa così come allora nacquero gli Stati Uniti d’America».