Un museo è un luogo spirituale». Con queste parole l’architetto francese Jean Nouvel spiega la filosofia che ha ispirato il progetto del nuovo Louvre di Abu Dhabi, una struttura eccezionale, simbolo di un profondo legame tra il Medio Oriente e l’Europa.
E proprio il Louvre di Abu Dhabi è l’ultimo di tanti musei e opere architettoniche divenuti attrazioni internazionali non solo per i tesori artistici che contengono, ma anche per la loro struttura, espressione di innovazione, design, scienza ingegneristica.
È quanto accaduto con lo Stavros Niarchos Cultural Center di Atene, progettato da Renzo Piano e realizzato da Salini Impregilo, con la Foundation Louis Vuitton di Parigi e con molti altri “edifici” divenuti essi stessi opere d’arte o simboli di un nuovo modo di pensare l’architettura. Questo è il messaggio che esprime anche il Bosco Verticale di Milano, progettato dall’architetto Stefano Boeri con l’idea di portare la natura viva dentro l’architettura.
Architetto Boeri, il Louvre di Abu Dhabi è stato progettato perché la struttura interagisse con il cielo, l’acqua, la sabbia. Il Centro Culturale Stavros Niarchos di Atene sembra invece disegnato dal vento e dall’acqua; gli edifici che lei stesso ha progettato, come il Bosco Verticale di Milano, hanno una presenza fortissima della natura. Questo ci conferma che i grandi architetti stanno raccogliendo un richiamo sempre più diffuso di tornare a parlare e anche a raccontare l’ambiente e la natura?
«Questa è sicuramente una chiave per interpretare l’architettura, ma non l’unica. Come dimostra anche il nuovo Louvre da poco inaugurato ad Abu Dhabi, la natura è ancora oggi ed è sempre stata un elemento di riferimento per l’architettura che di volta in volta ne ha fatto una copia o si è addirittura mimetizzata in essa, facendola diventare generatrice di forme che l’architettura avrebbe poi interpretato.
Nel caso del Bosco Verticale, a differenza di molte altre opere, noi abbiamo inglobato la natura vivente, quindi non pietre, rocce, terra, ma alberi e piante, e le abbiamo fatte diventare una parte costitutiva ed essenziale dell’architettura stessa».
Nel 2017 sono caduti anche i 20 anni dell’inaugurazione del Guggenheim di Bilbao, progettato dall’architetto americano Frank Gehry. Possiamo dire che il Guggenheim ha cambiato il modo con cui vengono guardati i musei, aprendo una stagione in cui l’architettura e l’arte sono una al servizio dell’altra?
«Il Guggenheim rappresenta sicuramente un esempio importante, ma anche guardando più indietro nel tempo troviamo numerosi episodi di musei che hanno una potenza tale da diventare oggetto della funzione artistica. Penso ad esempio al Centre George Pompidou di Parigi, inaugurato circa 20 anni prima, e progettato da Gianfranco Franchini, Renzo Piano e Richard Rogers. L’eccezionalità del Guggenheim di Bilbao è stata la sua capacità di raccontare come una grande architettura con la sua forza simbolica può rigenerare un’intera città, e diventare così un elemento che segnala una svolta nella vita sociale, culturale ed economica di una città. In pochissimo tempo il Guggenheim, proprio grazie al suo valore architettonico, è divenuto un segno di grande potenza, una specie di conferma inaspettata della potenza dell’immaginario collettivo fusa in un unico oggetto. Per fortuna ogni tanto succede che un architetto realizzi un’opera che da sola racconta la voglia di rilancio e di riscossa di una città intera».
Il nuovo Museo dell’Acropoli di Atene, il Whitney Museum of American Art a New York City, il Dongdaemun Design Plaza di Seoul così come la Foundation Louis Vuitton di Parigi. Questi esempi ci confermano che un museo, che è insieme una grande opera architettonica, può amplificare la suggestione e il fascino di un’opera d’arte?
«Non credo che l’architettura diventi meccanicamente arte. La dimensione artistica nasce dalla percezione del pubblico e dei critici, ma non in modo intenzionale. Poi ci sono architetture che diventano in sé grandi simboli, ma questo non ha nulla a che vedere con la loro capacità di contenere altre opere d’arte. Gli spazi museali oggi si ispirano a filosofie diverse. Qualcuno lavora più sul concetto di spazi neutri mentre altri cercano di collocare opere in relazione alle diversità cromatiche».
Dove è più forte oggi nel mondo la sensibilità a investire in grandi opere culturali e artistiche?
«Sto lavorando in tante parti del mondo e incontro tantissima gente diversa. Posso dire che non c’è un paese dove si lavora meglio o peggio. Noi lavoriamo molto in Olanda, dove stiamo realizzando tre edifici importanti; lavoriamo bene a Parigi ma anche in Albania a Tirana, dove si vive un momento di grande sviluppo. Stiamo poi lavorando almeno in dieci città della Cina, che ovviamente rappresenta un mondo totalmente diverso dal nostro. E ancora in Svizzera, Sud America, e ogni mondo ha una sua complessità, varietà e ricchezza nelle domande che rivolge all’architettura. Soprattutto molto è legato più che ai paesi, alle caratteristiche specifiche delle singole città».
Nel 2015 il suo Bosco Verticale è stato premiato come il grattacielo più bello e innovativo al mondo dal Council on Tall Buildings and Urban Habitat. Questo risultato solleva l’interrogativo se è veramente possibile trasformare anche le città in opere d’arte?
«Il Bosco verticale interpreta un grande movimento d’opinione che guarda con grande favore al nuovo rapporto tra natura vivente e spazio delle città. Questa concetto lo porta avanti con un gesto molto forte, ossia la presenza sulle pareti di un edificio di 21mila piante che sbucano nel cielo di una città molto densa come Milano. Questo elemento lo ha reso un simbolo di come Milano vuole riscattare una situazione ambientale ancora difficile grazie a un investimento sul verde. Non è un caso infatti che in questi giorni stiamo lavorando per un appello sulla forestazione urbana che verrà lanciato in previsione del Forum Mondiale della FAO che si terrà a Mantova, in Italia, nel novembre 2018».
Il Bosco Verticale non è solo un’opera ma forse un manifesto. Una nuova filosofia dell’architettura, sensibile all’ambiente fino a interagire in modo così massiccio con esso?
«Sicuramente. All’inizio c’era molto scetticismo come in tutti i casi in cui viene realizzato qualcosa mai fatto prima. Oggi invece c’è grande attenzione, grande orgoglio, e molti milanesi vedono in questo edificio un riscatto. È un edificio che genera suggestioni, gioia e insieme divertimento. A conferma di ciò, e questo mi fa molto piacere, mi arrivano tantissime lettere o disegni di bambini che ritraggono proprio il Bosco Verticale rivisto dalla loro immaginazione».
Forse è questa la sfida dei grandi architetti, dare un volto nuovo allo sviluppo?
«Credo che le sfide principali che abbiamo davanti siano due: la prima è la questione della povertà che si lega agli stili di vita cittadini. Viviamo in città dove ci sono condizioni di disagio e sofferenza estreme che devono essere affrontate anche da noi architetti. L’altro tema centrale è quello del cambiamento climatico. Dobbiamo intervenire subito, prima che la situazione diventi drammatica nei prossimi cinquant’anni. E anche in questo l’architettura può dare un aiuto prezioso».