La bandiera del protezionismo agitata dai leader mondiali, Donald Trump su tutti, è solo un diversivo. E nasconde una realtà differente, fatta di accordi bilaterali e di alleanze siglate con un solo obiettivo: mantenere la leadership dei commerci internazionali.
Ne è convinto Robert J. Barro, professore di Harvard e uno dei più influenti economisti mondiali. «L’attuale amministrazione Usa – spiega a “We Build Value” – è più a suo agio con accordi commerciali bilaterali piuttosto che con quelli multilaterali. Io scommetto su un aumento degli scambi tra Stati Uniti e Cina, che passerà attraverso una maggiore apertura della Cina alle importazioni e a nuovi investimenti da parte dell’imprese americane».
Se questo asse dovesse consolidarsi, cosa ne sarà dei rapporti tra gli Usa e l’Europa?
«Vedo anche un grande potenziale nei rapporti bilaterali di commercio tra Stati Uniti e Regno Unito, mentre credo che i rapporti con l’Unione europea, Germania compresa, miglioreranno più difficilmente.
Gli Stati Uniti hanno sollevato diverse obiezioni all’accordo NAFTA, che riguarda le relazioni commerciali con Canada e Messico. Per quanto riguarda il Canada, il risultato dei negoziati potrà permettere di ridurre le restrizioni sugli scambi di alcune merci specifiche, tra cui prodotti caseari che vengono esportati dagli Usa al Canada oppure legname che dal Canada arriva negli Usa. Per quanto riguarda invece il Messico, il tema più interessante dell’export di questo paese riguarda i beni provenienti dalla Cina che passano dal Messico per arrivare negli Stati Uniti. In questo caso, i cambiamenti approvati sul NAFTA che riguardano il Messico hanno un’influenza sul commercio tra la Cina e gli Stati Uniti».
La Banca Mondiale prevede che per il 2017 il Pil mondiale non raggiungerà la crescita del 3%, e su questo risultato ha un peso la crescita contenuta delle tre grandi economie più sviluppati (Usa, Area Euro, Giappone). Di chi è la colpa se alla crisi del 2008 non è seguito un rilancio economico sostenuto?
«La crescita futura dell’economia Usa dipende molto dalle riforme politiche che saranno approvate a Washington D.C. Per quanto riguarda le riforme fiscali e gli investimenti infrastrutturali, il potenziale è elevato. Un pericolo rimane però il protezionismo, che coinvolge ovviamente il commercio internazionale e i flussi migratori. Nonostante questo, sono abbastanza ottimista sul fatto che in pochi anni il Pil americano riprenderà a crescere ad una media del 3-4%. Sono invece meno ottimista sulle prospettive di crescita dell’Area Euro e del Giappone. Alcuni paesi dell’Area Euro sono ancora lontani in termini di programmi sociali e di regolamentazioni, e le mancate riforme frenano la crescita economica. Il Giappone ha investito troppo nelle infrastrutture nel passato e il debito pubblico accumulato è ormai stagnante dagli anni Settanta».
Il problema generale è che le economie più sviluppate sembrano aver perso di produttività. Da cosa dipende, da un’industria che ha smesso di investire nell’innovazione oppure da governi che attuano ormai politiche restrittive che non sostengono la crescita?
«I regolamenti governativi rappresentano una restrizione importante per la crescita della produttività, soprattutto negli Usa e nell’Area Euro. A questi si aggiunge anche una tassazione inefficiente, che negli Stati Uniti prevede tasse elevate sui profitti aziendali.
La conseguenza di un calo degli investimenti sembra quindi inevitabile».
Che ruolo possono avere gli investimenti infrastrutturali, soprattutto nei paesi emergenti, per sostenere la crescita globale?
«In linea generale, gli investimenti infrastrutturali dovrebbero concentrarsi su progetti che abbiano un elevato impatto sociale. Gli investimenti nel settore non dovrebbero essere considerati solo come uno strumento per creare lavoro. Le infrastrutture sono infatti strategiche per i paesi in via di sviluppo, ma i progetti inefficienti, macchiati dalla corruzione, rimangono un problema comune a molti paesi. Esempi recenti di grandi progetti annunciati sono l’estrazione di gas naturale vicino alla costa israeliana; la ferrovia Nairobi-Mombasa e, con un approccio molto speculativo, il canale del Nicaragua.
In questo quadro, anche lo sviluppo della tecnologia del fracking (il nuovo metodo di estrazione del gas) negli Usa è stato molto importante».
Su cosa dovrebbero concentrarsi gli investimenti infrastrutturali dell’amministrazione Usa? E che impatto il piano Trump potrebbe avere sull’economia americana?
«Negli Usa, la produttività degli investimenti nelle infrastrutture è molto elevata nei progetti di trasporto come autostrade, ponti e aeroporti. Di conseguenza, un grande programma pubblico di sviluppo su questi settori darebbe una spinta importante alla produttività e al Pil. Un modo ragionevole per finanziare progetti di costruzione di autostrade è ad esempio aumentare la tassazione sui carburanti. Allo stesso modo potrebbe essere utile aumentare il costo dei pedaggi di alcune infrastrutture come strade, aeroporti, ecc. Tuttavia, considerato il rapporto tra debito pubblico e Pil americano, è meglio evitare di finanziare le infrastrutture creando nuovo debito».
Più in generale, come giudica le riforme economiche annunciate dal Presidente Trump, a partire da quella fiscale?
«La riforma fiscale è molto promettente per la crescita dell’economia americana, ma è difficile da realizzare al livello politico. Ogni pacchetto fiscale dovrebbe infatti includere un taglio sostanziale alle tasse eccessive sui profitti aziendali. Un’altra buona idea sarebbe la riduzione delle aliquote fiscali combinata con l’ampliamento della base imponibile, nello spirito delle riforme fiscali approvate da Ronald Reagan negli anni ’80. Una grossa questione è ad esempio se aumentare tasse come la value-added tax (l’italiana IVA n.d.r.), una strada che stanno imboccando molti paesi. Questi sistemi sono molto più efficienti rispetto all’attuale sistema fiscale vigente negli Stati Uniti, basato principalmente sull’imposizione sul reddito, mentre è assente un’imposta consistente sui consumi».