La Divisione Popolazione del Dipartimento degli Affari Sociali ed Economici delle Nazioni Unite pubblica regolarmente proiezioni demografiche mondiali di cui troppo spesso si tende a rammentare solo la variante media, nonostante si basino su ipotesi da vagliare con estrema prudenza. È perciò frequente sentire affermare che nel 2050 il pianeta ospiterà nove miliardi di abitanti, sebbene permangano grandi incertezze riguardo ai futuri sviluppi in termini di fertilità, speranza di vita e saldo migratorio.
Megalopoli e incremento della popolazione
È tuttavia evidente una tendenza difficile da contrastare: l’urbanizzazione della popolazione mondiale – innescatasi nei paesi sviluppati tra il 1750 e il 1950 – ora avanza soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Si ritiene che tra il 1950 e il 2014 la popolazione urbana sia passata da 740 milioni a 3,9 miliardi di individui e che nel 2008 il numero dei cittadini abbia superato quello della popolazione rurale; gli inurbati rappresenterebbero ormai il 54% dell’umanità e secondo la proiezione mediana delle Nazioni Unite potrebbero raggiungere il 66% nel 2050. È ancora più impressionante la crescita delle “megacittà” (come vengono definite dalle Nazioni Unite), le metropoli che ospitano oltre dieci milioni di abitanti. Se ne contavano tre nel 1970, dieci nel 1990, ventotto nel 2014 e potrebbero diventare quarantuno entro il 2030.
Il Novecento è stato testimone dell’aumento del numero dei cittadini che è cresciuto da 220 milioni nel 1900 a 2,84 miliardi nel 2000. Sempre secondo le Nazioni Unite un incremento della stessa entità potrebbe attualmente verificarsi in soli quattro decenni. Circa il 93% di tale aumento si produrrà nel mondo in via di sviluppo e in particolare – per oltre l’80% – in Africa, Asia, America Latina e Caraibi.
Cos’è una megalopoli
Nonostante la tendenza appaia – forse a torto – assolutamente evidente, occorre tuttavia sottolineare che non esiste una definizione chiara e universale di ciò che chiamiamo città o area urbana. I criteri impiegati sono eterogenei: densità della popolazione, struttura dell’agglomerato, esistenza di un centro amministrativo o addirittura di un sistema di governo comune. In Islanda viene ad esempio considerata urbana una località con oltre duecento abitanti; in Francia quella che supera i duemila abitanti ed è caratterizzata da una continuità dell’abitato. Quanto alla definizione adottata dalle Nazioni Unite, essa è il risultato di una combinazione di criteri differenti.
Nel 2007 diciannove agglomerati erano definiti “megacittà” (metropoli che ospitano più di dieci milioni di abitanti). È assai probabile che da allora il loro numero sia aumentato e che aumenterà ancora, anche se attualmente si osserva che in alcune grandi metropoli (Buenos Aires, Calcutta, Città del Messico, San Paolo e Seoul) il flusso dell’emigrazione ha superato quello dell’immigrazione che, storicamente, è stato il principale motore dell’urbanizzazione. Anche se il numero delle megalopoli con oltre dieci milioni di residenti, e addirittura oltre venti milioni di abitanti, potrebbe ancora aumentare, è tuttavia assai probabile che la metà dei cittadini di domani continuerà a vivere in agglomerati dalla popolazione inferiore al milione.
Bisogna del resto sottolineare che la configurazione delle aree urbane non è identica ovunque. Alcune città hanno una popolazione assai concentrata, sono cresciute in altezza. Altre hanno visto la loro cittadinanza crescere a ondate, disordinatamente, fatto che spesso ha comportato un’acutizzazione delle disuguaglianze tra un nucleo centrale borghese e lo spazio peri-urbano in cui si espandono i cosiddetti “ghetti”. Pertanto, in molte città del nord del mondo, e a maggior ragione del sud, coesistono residenti nelle cui mani si concentra la ricchezza, al centro, e individui che soffrono di estrema povertà ai margini.
Le sfide legate alla povertà urbana sono immense. Abbiamo già osservato che nel periodo tra il 2000 e il 2030 la popolazione urbana dei paesi in via di sviluppo potrebbe raddoppiare. Per assicurarsi che queste persone non vivano in tuguri, nell’arco di questi trent’anni bisognerebbe edificare ogni settimana l’equivalente di una nuova città di un milione di abitanti. I dati statistici sulla povertà sono assai lacunosi, che si tratti del numero dei senzatetto nei paesi ricchi o di quello di coloro che vivono in una catapecchia nei paesi poveri. Nel 2008, l’anno in cui il numero degli inurbati ha superato quello della popolazione rurale, un terzo degli individui censiti come cittadini vivevano in baraccopoli, il 90% nei paesi in via di sviluppo, bidonville dalle caratteristiche spesso differenti, quali le favelas in Brasile, il kijiji in Kenya, il barrio in Venezuela, le townships in Sud Africa, i bastis a Calcutta. Pare dunque logico chiedersi il perché le città attraggano un numero sempre più elevato di persone.
Attrattive e limiti della vita urbana
I fondatori della sociologia hanno sempre considerato la città come la culla della modernità e sottolineato come essa non sia unicamente caratterizzata dalla concentrazione di persone, infrastrutture, centri amministrativi, ma sia un prodotto della natura umana, un ambiente ecologico, uno stato d’animo, un atteggiamento, una mentalità, un intreccio di rapporti razionali e impersonali che uniscono gli individui. Altri autori hanno invece rimarcato il fatto che la città è stata il fulcro dell’industrializzazione, il luogo in cui si concentravano le occasioni di lavoro, la ricchezza, le possibilità di accesso all’istruzione e alla cultura, i mezzi di comunicazione, e dunque le opportunità per chi vi abitava di migliorare la propria condizione.
Come dimostra la letteratura sui centri educativi, di ricerca e innovazione, sui principali poli di competitività e di creazione di ricchezza, questa seconda interpretazione è spesso avanzata ancora oggi, in presenza di un’economia globalizzata che esige di essere “connessa” in permanenza e quindi situata nei nodi della rete costituita dalle città.
Nel 2007 Veolia Environment ha dato vita a un “Osservatorio degli stili di vita urbani” che ha condotto uno studio presso gli abitanti di quattordici grandi città i cui risultati confermano, sotto molti aspetti, le analisi dei pionieri della sociologia. La comunità globale dei cittadini è costituita da individui le cui vite quotidiane si organizzano e si dipanano in un universo caratterizzato dal modernismo architettonico, quello delle infrastrutture e dei servizi d’avanguardia.
Gli abitanti delle grandi metropoli, catturati in una moltitudine di flussi, vivono su un pianeta “più piccolo” in cui le distanze e il tempo si riducono grazie a mobilità e comunicazioni accelerate. Individui provenienti da città e ambienti sociali differenti si sfiorano in continuazione pur rimanendo legati al resto del mondo e stringendo relazioni basate sull’affinità. Ma ciò non impedisce che la città susciti nei suoi abitanti emozioni confuse e a volte contraddittorie. I sentimenti che essi esprimono nei confronti delle città sono ambivalenti. L’inchiesta mostra per esempio che comodità, attaccamento, cordialità... si oppongono a stress, saturazione, insicurezza. In tutte le metropoli prese in considerazione oltre otto cittadini su dieci percepiscono lo spazio urbano come somma di tutte le possibilità che consente, come sottolinea un newyorkese, “di accedere a tutto, rapidamente, come vuoi, quando vuoi”. Allo stesso tempo essi riconoscono che “per vivere davvero bene in città bisogna guadagnare tanto” e, pur considerando la città come spazio permanente di incontri potenziali, ammettono che essa suscita una sensazione di anonimato e solitudine.
I centri urbani forniscono – secondo la stessa ricerca – un migliore accesso all’istruzione e ai servizi igienici, sanitari, di approvvigionamento idrico e di gestione dei rifiuti; offrono tutta una serie di infrastrutture e mezzi di trasporto e di comunicazione impensabili nelle zone rurali. Gli economisti affermano che le esternalità della città sono positive. Ma non tutti i cittadini hanno identiche possibilità di accedere a tali servizi; e la città è anche sinonimo di inquinamento, congestione, erosione della solidarietà, emarginazione, insicurezza, criminalità; altrettanti fattori di isolamento, esasperazione reciproca, tensioni e paure.
Modernizzare la città o abbandonarla
Le città concentrano oggi tutti i vantaggi e i difetti della “vita moderna”. Principale consumatrice di risorse naturali, particolarmente ingorda di energia e fonte di inquinamenti di tutti i tipi, quali le emissioni di gas a effetto serra e i rifiuti, essa appare poco sostenibile sul piano ecologico e forse anche meno attraente sul piano della qualità della vita; la sua gestione si fa meno efficiente e la sua vulnerabilità maggiore a misura del suo sviluppo. E, soprattutto, non tutte le città dispongono di infrastrutture e servizi della stessa qualità, tutt’altro, né offrono a tutti i residenti lo stesso livello di benessere.
L’ingegneria delle città ha bisogno di essere ripensata, reinventata, di qui la fioritura dei concetti di città post-carbone, città sostenibili, città intelligenti o “smart cities” che possono trarre benefici immensi dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Ma le stesse tecnologie, se non vengono dispiegate in favore di una più efficiente gestione delle aree urbane e dello sviluppo di nuovi servizi,possono anche persuadere le persone ad abbandonare i grandi agglomerati metropolitani e a privilegiare stili di vita che concilino meglio le attrattive della campagna con i vantaggi una volta riservati esclusivamente alle città.
Mentre l’urbanizzazione è una tendenza incontrastabile, l’avvenire delle città e soprattutto quello delle megalopoli è ancora segnato da numerose incertezze. Le amministrazioni e le imprese che costruiscono, ammodernano ed equipaggiano le città di impianti e infrastrutture, tutte le parti interessate a ciò che caratterizza la città e la sua attrattiva sono chiamate a un immenso sforzo di inventiva che tenga conto di opportunità e costrizioni nuove: quelle offerte dal progresso delle tecnologie a favore di una gestione concertata e ottimale dei sistemi complessi; quelle imposte dalla necessità di uno sviluppo sostenibile; quelle derivanti da nuove aspirazioni a una vita migliore in un mondo che domani sarà radicalmente diverso da quello di ieri.