Il monumento dell’ingegneria civile italiana sovrasta la valle di Bagnara Calabra. Sospeso a 249 metri di altezza dal torrente che corre a fondo valle (si tratta infatti del secondo viadotto più alto d’Italia) e infinito con la luce della campata principale lunga 376 metri, il viadotto Sfalassà galleggia tra le ripide montagne della Calabria.
Un monumento, appunto, come da tutti ormai viene considerato perché progettato nel 1967 dall’ingegnere Silvano Zorzi, uno dei progettisti più apprezzati del XX secolo, e sopravvissuto al tempo tanto che, quando l’autostrada Salerno-Reggio Calabria è stata ricostruita, l’unico punto fermo in fase di progettazione era salvare lo Sfalassà.
E lo Sfalassà non solo è stato salvato, ma è stato integrato all’interno del nuovo tracciato autostradale, con interventi di manutenzione e rinnovamento accompagnati alla ricostruzione di alcune parti.
Un’opera unica, realizzata dal Gruppo Webuild tra il 2008 e il 2012, affinché la nuova autostrada, moderna e panoramica, non venisse privata di questa perla dell’ingegneria che, insieme al cantiere del viadotto Favazzina, è una delle opere più complesse della Salerno–Reggio Calabria.
Viadotto Sfalassà: un’opera mai progettata prima
Nel 1967 ci vollero 1.441 giorni per costruire il viadotto Sfalassà e ognuno di essi – per chi ha preso parte a quel cantiere – è stato un’impresa.
Venti forti, inverni piovosi, salsedine proveniente dal mare, pendii scoscesi e friabili, strutture d’appoggio paludose: questo è stato l’ambiente dove si è stato girato il film della costruzione del ponte, poi replicato nel 2008 con gli interventi di ammodernamento.
Una costruzione che nasce da un progetto unico, perché – proprio per rispondere a queste incredibili caratteristiche ambientali – Zorzi adottò la soluzione dell’arco portante spingente. Oltre alle due pile centrali, alte 125 metri, l’ingegnere previse anche due puntoni obliqui (i più grandi del mondo per dimensioni) che avrebbero scaricato sui versanti parte del peso della campata, anch’essa, al momento dell’inaugurazione, celebrata come la più lunga d’Europa.
Queste eccezionali caratteristiche tecniche, unite all’impegno e alle competenze dei lavoratori coinvolti nella costruzione, hanno permesso al ponte di Bagnara di conquistare per tre volte il Cecm, il massimo riconoscimento europeo per le grandi opere, ottenuto nel 1968, 1970 e 1972, un record fino ad allora mai eguagliato.
Anche questo spiega perché proteggere quel monumento dell’ingegneria, manutenerlo, modernizzarlo e integrarlo con la nuova autostrada sarebbe divenuta presto una sfida complessa almeno quanto quella della sua costruzione.
La nuova autostrada Salerno-Reggio Calabria passa per il viadotto Sfalassà
Agli ingegneri e ai tecnici che si sono trovati ad affrontare la sfida di integrare il viadotto Sfalassà con la nuova autostrada è subito parso chiaro che sarebbe stata la nuova autostrada ad adeguarsi al ponte di Bagnara e non viceversa.
«Il nostro compito – racconta oggi Umberto Cardu, il direttore tecnico operativo del V macrolotto della Salerno-Reggio Calabria competente anche per i lavori sul ponte – era quello di preservare lo Sfalassà modernizzandolo. Un compito complesso proprio per le caratteristiche uniche di quest’opera».
Fu così che i lavori sul nuovo viadotto Sfalassà furono divisi in tre fasi, che per alcuni periodi viaggiarono parallele: la prima fase era quella della demolizione dei vecchi viadotti di approccio in cemento armato che collegavano il ponte con l’autostrada. La seconda prevedeva la costruzione delle nuove pile per sorreggere i nuovi viadotti di approccio al Grande Luce; e la terza ed ultima il varo dei nuovi viadotti che, per via delle caratteristiche del suolo, è stato fatto spingendo in orizzontale i nuovi impalcati metallici dall’interno delle nuove gallerie verso il Grande Luce, ed addirittura dal Grande luce stesso, verso la galleria San Giovanni.
«In sostanza – spiega Cardu – tutto il corpo centrale dello Sfalassà (le due pile centrali alte 125 metri, i puntoni obliqui e la campata di 376 metri) è rimasto intatto, noi abbiamo ricostruito le estremità del ponte adeguandole al nuovo tracciato autostradale. Tutto questo mantenendo il traffico in esercizio sulla carreggiata non interessata dai lavori».
Ai lavori di costruzione dei nuovi viadotti di approccio si sono però aggiunti anche gli interventi di manutenzione e ammodernamento del Grande Luce. «Il viadotto aveva sopportato oltre 40 anni di traffico ed era necessario controllarne lo stato e potenziarne la parte metallica. Sotto la direzione lavori dell’Istituto Italiano della Saldatura, siamo quindi intervenuti sull’impalcato metallico, ripristinando quasi tutte le saldature strutturali ammalorate e predisponendo nel contempo la campata metallica per il suo futuro allargamento».
Gli interventi sulla campata sono stati accompagnati da quelli sulle pile 3 e 4, i due giganti in cemento armato, un intervento di restauro enorme perché tutti i calcestruzzi erano stati rovinati dall’esposizione agli agenti atmosferici e andavano messi in sicurezza. «Sulle pile – racconta Cardu – abbiamo realizzato un nuovo cappotto di cemento armato alto 30 metri che garantisse la stabilità di questi giganti», oltre al rifacimento del copriferro su tutta la parte rimanente di ambedue le pile.
Una serie di attività complesse che erano state progettate nei minimi dettagli, anche se la vera sfida sarebbe stata ingaggiata con la natura.
Il nostro impegno per proteggere il ponte di Bagnara Calabra
Il mare è a un passo, ma d’inverno i rilievi dell’Aspromonte diventano una delle zone più piovose d’Italia. Piogge forti, battute dal vento, che inzuppano le montagne aumentando il rischio di frane e smottamenti.
«Ho ricominciato a dormire serenamente solo dopo aver portato a termine quei lavori – ricorda oggi Cardu. – Ogni notte di pioggia la paura era che uno smottamento della montagna potesse pregiudicare il cantiere, e ricordo che, nei giorni peggiori, alcuni autisti non se la sentivano di andare giù con i camion perché temevano che non sarebbero riusciti a risalire».
La “battaglia” per lo Sfalassà è stata soprattutto quella della cantierizzazione, ovvero creare le condizioni ottimali per il lavoro, riducendo i rischi per le persone.
«Parte del nostro lavoro – prosegue il direttore tecnico – è stato dedicato alla costruzione delle piste necessarie per far scendere le betoniere a valle, e alla stabilizzazione dei versanti che altrimenti rischiavano di franare in ogni momento. Per fare un esempio, il versante lato Salerno era stato interessato da una frana di dimensioni notevoli che impose la rimodellazione del versante stesso con uno sbancamento finale di quasi 700.000 m3».
Tutto questo rispettando elevatissimi vincoli ambientali, che imponevano la rimozione di tutti i vecchi materiali e la riambientalizzazione dei versanti, dove sono stati ripiantati alberi e vegetazione naturale.
«Lavorare sullo Sfalassà – ammette Cardu – è stata un’opera di una complessità unica, ma a ripensarci oggi, diversi anni dopo, anche uno dei lavori più entusiasmanti della mia carriera. Una costante lotta dell’uomo contro gli elementi».
Una lotta condotta con ingegno e rispetto per tutelare un monumento dell’ingegneria italiana.