Che cosa hanno in comune il discendente di un agricoltore olandese (Vanderbilt), il figlio di un mercante di bestiame della Baviera (Lehman) e un povero immigrato scozzese (Carnegie)? Sono i baroni dell’industria e della finanza americana, alcuni degli uomini, temuti e venerati, che, nella seconda metà dell’Ottocento, hanno costruito e reso prospera l’America moderna.
Nella seconda metà dell’Ottocento e in particolare nell’ultimo quarto del secolo, gli Stati Uniti sono la nuova frontiera industriale, il grande paese emergente, con la Germania, della seconda rivoluzione industriale. È la Gilded Age, l’età dorata della rapida industrializzazione e della crescita dei salari, che aumentano di circa il sessanta per cento soltanto tra il 1860 e il 1890. È una stagione di sviluppo guidata da molti fattori: le abbondanti risorse (terra soprattutto, ma anche capitale e lavoro, che arriva per successive, imponenti ondate migratorie); le istituzioni egualitarie e inclusive, almeno per i bianchi; un vasto mercato con una domanda, pubblica e privata, in crescita. È il terreno in cui nasce e si sviluppa il Big Business, la grande impresa di dimensioni continentali, animata da figure nuove quali azionisti, manager, ingegneri, tecnici.
Il motore dello sviluppo è l’infrastrutturazione del paese, che all’epoca significa soprattutto ferrovie. È qui che accorrono ingenti capitali, è qui che si forma un management moderno, è qui che transita la produzione, la distribuzione, lo scambio. È qui che vengono alla ribalta uomini come Collis Potter Huntington (1821-1900), uno dei costruttori della first transcontinental railroad, la prima ferrovia transcontinentale, una delle grandi e visionarie opere della modernità, che mette in collegamento il sistema ferroviario della East Coast con quello della West Coast. Si può salire su un treno alla grande stazione di New York sulla quarantaduesima (costruita da Cornelius Vanderbilt, 1794-1877) e dopo sette giorni scendere comodamente a San Francisco, piuttosto che trascorrere mesi per mare.
Huntington è uno dei baroni delle ferrovie del Pacifico, come Leland Stanford (1824-1893), che sarà governatore della California e fondatore della Stanford University. I loro interessi incrociano spesso quelli dei magnati dei settori nuovi dell’industria siderurgica, come Andrew Carnegie (1835-1919) e Henry Clay Frick (1849-1919), o di quella petrolifera, come John D. Rockefeller (1839-1937). Sono tutti o quasi iniziatori di dinastie che durano nel tempo. Ma acciaio, ferrovie, petrolio hanno bisogno di un polmone finanziario, ed è qui che entrano in scena i baroni della finanza, come i tre fratelli Lehman (Emanuel, Henry, Mayer), che saltano dal commercio del cotone grezzo agli high-banking circles, o come Andrew Mellon, banchiere e poco più avanti ministro del Tesoro, oppure John Pierpont Morgan (1837-1913), il dominus della Banca Morgan, il ‘prestatore di ultima istanza’ nella crisi del 1907 (all’epoca non esiste infatti la Federal Reserve, che nasce dopo poco per fronteggiare crisi sistemiche), il banchiere che muore come un sovrano a Roma nella suite reale dell’Hotel Plaza.
Con la morte di Morgan finisce, per molti versi, un’era, già picconata dai colpi che nei primi anni del Novecento il Presidente Theodore Roosevelt infligge ai robber barons (i baroni ladroni), come vengono ora chiamati i magnati dell’acciaio, delle ferrovie, del petrolio. Il Presidente muove guerra a quella alleanza blasfema (unholy alliance) tra corrupt business e corrupt politics che lega non pochi di loro. È un governo invisibile che opera dietro quello visibile, nelle parole di Roosevelt, il quale non rinuncia a vestire egli stesso i panni del costruttore quando impegna il governo (e i privati) nella realizzazione del Canale di Panama (1904-1914), altra visionaria opera di inizio Novecento. E non a caso, per portare a termine l’iniziativa, Roosevelt si affida a grandi manager privati del settore ferroviario quali John Findley Wallace della Illinois Central Railroad e John Frank Stevens della Great Northern Railway. È un momento di quella costante e costruttiva interazione, tra settore pubblico e settore privato, che ha fatto grande l’America. Un grande processo di infrastrutturazione che non si comprende senza il ruolo del ‘developmental State’.
Una cosa hanno in comune i Carnegie, i Morgan, i Vanderbilt. Sono filantropi (come Bill Gates). Ai loro nomi sono legate università (Carnegie Mellon a Pittsburgh, Stanford University, Vanderbilt University a Nashville); musei (la Frick Collection nell’Upper East Side a New York City, l’Huntington Library, Art Collection and Botanical Gardens a San Marino nell’area di Los Angeles, uno straordinario parco culturale voluto da Henry E. Huntington, nipote del citato Collis Potter Huntington); istituzioni culturali (Carnegie Hall, Pierpont Morgan Library etc.). E sono anche politici, nel senso che hanno un rapporto forte, di integrazione, talora di connivenza, talaltra di sostituzione, con la politica, in modo esplicito (Mellon diventa segretario al Tesoro con il Presidente Harding) o in modo implicito (Vanderbilt: “Che me ne importa della legge? Non ho il potere?”).