«Quando sono partito avevo 26 anni ed ero il più giovane nel cantiere di Abu Simbel». Luciano Paoli oggi di anni ne ha 78, è uno dei pochi superstiti di quella grande avventura che fu lo spostamento dei templi di Ramesse II in Egitto, messi a rischio dalla costruzione della diga di Assuan, e ha deciso di raccontare quell’incredibile esperienza a “We Build Value”.
«Mi fermò un ingegnere di Impregilo mentre passeggiavo lungo via Roma, il corso di Carrara, e mi chiese se conoscessi persone disposte a partire subito per l’Egitto». Paoli salì su un aereo pochi giorni dopo insieme ad altri quattro marmisti di Carrara con un compito delicatissimo: tagliare i templi in blocchi, in modo che potessero essere smontati e rimontati altrove. Un compito affidato ai marmisti di Carrara, considerati i migliori al mondo.
«Ho cominciato nelle cave a 13 anni e a 14 avevo già il mio primo libretto di lavoro – racconta –. Da ragazzi il nostro compito era quello di portare l’acqua agli operai e di preparare i materiali, ma è stata la mia prima scuola per imparare il mestiere».
Nel 1965 quel mestiere lo conosceva alla perfezione. Cosa accadde?
«Erano i primi giorni di ottobre quando partimmo per l’Egitto. Insieme a me arrivarono quattro persone da Carrara, altrettante dalla Garfagnana, più altre da Vicenza. Tutti esperti nel tagliare il marmo. Avevamo fatto esperienza nelle cave e questo ci rendeva tra i migliori al mondo in quel lavoro».
Come è stato l’impatto con Abu Simbel?
«Ricordo il deserto, un deserto infinito, e il caldo. Faceva molto caldo e non pioveva mai. E poi ricordo il Nilo. Era sotto i nostri piedi e metteva soggezione per quanto era grande. Ma la nostra vita si svolgeva quasi completamente nel cantiere e nel villaggio che era stato costruito per tutti gli operai impegnati nei lavori. C’era perfino un campo di calcio, di pallavolo e di bocce».
Com’era organizzata la vostra giornata?
«La mattina ci alzavamo alle 6,30 e andavamo in cantiere. Si lavorava tutto il giorno con una pausa pranzo per ripararci nelle ore più calde. La sera smettevamo e ci incontravamo con gli altri».
Qual era il vostro compito?
«Tagliare i blocchi dei Templi. Era un lavoro complesso e di precisione perché avevamo tra le mani pezzi di storia. Ricordo che avevamo a disposizione il Novello, una macchina dotata di una lama di 35 centimetri con denti diamantati. Usavamo quella per sezionare i blocchi facendo in modo che non si rompessero. Eravamo pagati per tagliare 30 blocchi al mese e quando riuscivamo a consegnarne di più ci veniva riconosciuto un premio».
Quella di Abu Simbel è stata una grande imprese internazionale. Com’era condividere il lavoro con persone provenienti da così tanti paesi?
«È una delle cose che ricordo con più nostalgia di quell’anno. Vivevamo insieme a persone provenienti da tutto il mondo: americani, svedesi, francesi, tedeschi e con tutti stringemmo un rapporto bellissimo. La sera uscivamo e andavamo al villaggio dove siamo stati accolti con grande calore. Era come se fossimo tutti impegnati per un obiettivo comune».
C’è qualche episodio che l’ha segnata nella memoria?
«Una sera il nostro cuciniere andò a prendere una capra al villaggio, ma se la fece uccidere sul momento e ce la cucinò per cena. Ci fu una piccola ribellione perché nessuno di noi voleva mangiare una capra appena uccisa. Ricordo che sopraggiunse il direttore dei lavori del cantiere che era un tedesco. All’inizio ci redarguì per il baccano, poi capì e passò dalla nostra parte».
E quando è tornato a casa?
«Sono tornato a Carrara dopo un anno di lavoro e ho scoperto che i lavori di Abu Simbel erano diventati famosi. Ne parlavano i giornali e le televisioni».
Cosa le è rimasto di quell’esperienza?
«Ho un ricordo bellissimo. Una grande vittoria per gli ingegneri che avevano avuto l’idea di spostare i Templi, ma anche per noi che mettemmo a disposizione tutto quello che avevamo imparato in tanti anni passati nelle cave. Dopo quell’anno in Egitto ho girato il mondo continuando a fare il mio mestiere. Sono stato in Libia, in Medio Oriente e in tantissimi altri posti, ma quell’esperienza che mi è rimasta dentro».
E oggi?
«Oggi ho 78 anni, mi sono ritirato e coltivo il mio vigneto. Eppure mi sento un giovanotto e sarei ancora in grado di ripetere l’impresa».