A cinquant’anni dal salvataggio dei templi, il Museo Egizio di Torino sostiene un’iniziativa per ricordare l’impresa di Abu Simbel. Perché?
«La storia del nostro museo è intrecciata a quella dello straordinario salvataggio dei templi della Nubia. Negli anni Sessanta il museo fu chiamato a contribuire alla campagna di salvataggio dei templi della Nubia, sotto l’egida dell’UNESCO.
Il Museo Egizio portò a compimento il salvataggio del tempio di Ellesiya, costruito da Tutmosi III e restaurato da Ramesse II. Il tempio fu donato dall’Egitto e poi ricostruito al Museo Egizio».
Il Museo Egizio di Torino è una delle perle del nostro Paese. Come viene celebrata oggi quell’impresa?
«Oltre alla pubblicazione del volume “Nubiana”, nel percorso museale è stata appena ricollocata la targa degli anni Sessanta che commemora il dono del tempio di Ellesiya da parte del governo egiziano».
Cosa avrebbe significato, per la storia della cultura egizia, perdere un patrimonio come i templi di Abu Simbel?
«I templi di Abu Simbel e più in generale tutte le opere dell’area nubiana sono parte del patrimonio dell’intera umanità. Perderli avrebbe significato cancellare per tutti, anche per le generazioni future, questa straordinaria testimonianza dell’arte egizia. Simbolo del potere faraonico, questi templi sono anche espressione del sapere tecnologico raggiunto al tempo di Ramesse II».
Qual è stato il ruolo del Museo Egizio di Torino, e più in generale della comunità archeologica italiana, nell’analisi del sito di Abu Simbel prima dell’impresa?
«Negli anni 60, decine di paesi hanno risposto all'appello lanciato dall'UNESCO, fornendo personale e finanziamenti. Alcuni di loro, tra cui l'Italia, organizzarono una serie di campagne archeologiche coordinate dal Centre d’Étude et de Documentation sur l’Ancienne Egypte, esplorando, scavando e registrando le aree che sarebbero state sommerse.
Gli egittologi del Museo Egizio parteciparono ad alcune impegnative prospezioni nella Nubia egiziana per documentare i siti destinati a essere sommersi dalle acque del lago Nasser».
Chi era Ramesse II e come viene celebrato nel Museo?
«Ramesse II è probabilmente il più noto faraone della storia dell’antico Egitto e alla sua figura sono legati moltissimi reperti del Museo Egizio. Oltre al tempio di Ellesiya, iI monumento più conosciuto è probabilmente la statua in tonalite oggi esposta nella Galleria dei Re. Vedendola a Torino, Champollion disse “La testa è divina, i piedi e le mani ammirevoli, il corpo morbido; lo chiamo l’Apollo del Belvedere egiziano… in breve, ne sono innamorato”.
Quest’opera innovativa mostra un’insolita caratterizzazione del volto che sembra chinarsi verso lo spettatore con un sorriso benevolo: è come un dio sceso sulla terra, pronto ad ascoltare le suppliche dei viventi.
Tra i reperti legati alla figura di Ramesse II abbiamo anche il corredo della regina Nefertari, “grande sposa reale” del faraone. Durante gli scavi nella Valle delle Regine, nel 1904, gli archeologi rinvennero la sua tomba, purtroppo già saccheggiata. Sparsi al suolo però furono rinvenuti i frammenti di un sarcofago in granito rosa, altri elementi di corredo funerario, di cui molti recanti il nome della defunta, e due resti mummificati di arti umani».
Cercando di inquadrare meglio il valore storico e artistico delle opere salvate, perché i templi di Abu Simbel erano così importanti da richiamare una task force internazionale impegnata nel loro salvataggio?
«I templi di Abu Simbel e, più in generale, i monumenti della Nubia costituiscono l'espressione suprema del potere egiziano in Nubia sotto il regno di Ramesse II.
L’ipotesi di perderli suscitò all’epoca un eccezionale clamore. La comunità archeologica si attivò diffondendo appelli internazionali per sollecitare il salvataggio di queste opere».
Cosa ci insegna oggi l’impresa di Abu Simbel. Arte e cultura sono chiamate a pagare un prezzo in nome del progresso?
«Il salvataggio dei templi della Nubia rappresenta il risultato di una perfetta cooperazione internazionale, che ha messo in evidenza il valore archeologico, storico e paesaggistico del sito. Il grande tempio di Abu Simbel è forse il più imponente edificio scavato nella roccia dell’Antico Egitto. Fu commissionato dal faraone Ramesse II (1279-1213 a.C.), probabilmente nei primi anni del suo regno, in onore delle divinità più importanti del periodo Ramesside, per celebrare la propria divinizzazione».
Crede che il mondo oggi sarebbe in grado di ripetere un’impresa come quella di Abu Simbel?
«Il museo intende oggi raccontare anche questa storia, per ricordare che grandi imprese come questa sono possibili. Il museo ha anche un ruolo didattico per le nuove generazioni, non intende presentare solo l’oggetto ma anche la biografia dell’oggetto di cui il museo con le sue attività è parte».
Cosa rimane di quella cultura, qual è il lascito e l’eredità che ci vengono tramandati da quel popolo?
«Non è possibile riassumere in breve quello che ci hanno lasciato. Sicuramente una grande sete di vita, profondo rispetto per la propria storia, grande spiritualità, considerevoli competenze tecnologiche, capacità di interagire proficuamente con un territorio non sempre amichevole».