Secondo gli analisti del Fondo monetario internazionale, il ventunesimo secolo sarà il secolo africano. Le ragioni vanno dall’aumento della popolazione e quindi del numero di persone in età lavorativa, alla crescita della ricchezza, diffusa soprattutto nell’area Sub-Sahariana, fino alla modernizzazione delle economie, sempre più centrate su infrastrutture, servizi e turismo.
Con 22 Paesi che crescono nel 2015 a ritmi superiori al 5%, il continente lancia la sua sfida per attrarre capitali stranieri e diventare un crocevia dello sviluppo mondiale.
La spinta demografica
Entro i prossimi 35 anni, la popolazione africana passerà da 1,1 a 2 miliardi di persone.
Mentre i Paesi più ricchi – quelli del G7, la Russia e la Cina – hanno raggiunto intorno al 2010 il picco della popolazione in età lavorativa e si avviano a un graduale declino demografico, l’Africa è in pieno boom: tra i 25 Paesi con i tassi di fertilità più elevati, solo due non sono della regione subsahariana, dove il 43 per cento della popolazione ha oggi meno di 14 anni.
Entro il 2030, il contributo del continente africano alla crescita numerica della forza lavoro globale supererà da solo quello di tutti gli altri continenti aggregati. Tra il 2030 e il 2050, nel mondo, la popolazione in età lavorativa continuerà ad aumentare solo grazie ai giovani africani.
Più persone in età lavorativa implicano di converso una fetta più piccola di “dipendenti”, cioè bambini e anziani che consumano risorse pur non producendo reddito, e un numero maggiore di lavoratori attivi. L’aumento del risparmio aggregato da parte del ceto produttivo potrà condurre a maggiori investimenti nel continente – ancora oggi dipendente dai trasferimenti esteri – e ad un accrescimento dello stock di capitale e della produttività, il che permetterebbe di assorbire la crescente forza lavoro.
Di conseguenza, il reddito pro capite è destinato ad aumentare, così come la domanda interna che spinge la crescita economica.
La corsa del Pil
All’inizio di questa transizione verso uno sviluppo più equilibrato e stabile, l’Africa subsahariana si conferma una regione in piena accelerazione. Dei 41 Paesi nel mondo che, nel 2015, crescono a ritmi superiori al 5 per cento, oltre la metà – 22 – sono africani. Nessuno è europeo o nordamericano.
Secondo le stime del Fondo monetario, il Pil dei 45 paesi dell’Africa subsahariana crescerà cumulativamente del 26,3 per cento tra il 2015 e il 2020. Cifre impressionanti, soprattutto se paragonate al 10,6 per cento previsto nei paesi del G7 e dell’Unione europea, o al 7,9 per cento dell’area euro. A trainare la crescita paesi come Costa d’Avorio (7,7 per cento quest’anno), Tanzania (7,2), Kenya (6,8) e Repubblica Democratica del Congo (9,2). Ma ci sono altre storie di successo straordinarie: l’Etiopia cresce da tre anni al 6%, il Camerun al 5%, il Ghana al 7.
Altri Paesi dell’area conoscono un prepotente sviluppo, ora leggermente scalfito dalle vicende negative del mercato petrolifero, come l’Angola, il Mozambico e soprattutto la Nigeria, membro dell’Opec e Paese più popoloso del continente (170 milioni di abitanti ). Altri ancora sono invece in parte colpiti dall’andamento altrettanto calante delle commodity ferrose, dal rame allo zinco fino all’oro:
Sudafrica, Zambia, la stessa Repubblica Democratica del Congo. Com’è noto, quest’ultimo problema è a sua volta indotto dalla frenata del maggior consumatore mondiale di materie prime, la Cina, ma al gap di domanda orientale sta cominciando a rispondere l’Europa che fortunatamente ha imboccato la via della ripresa.
Infrastrutture e servizi
Tutti i Paesi citati, pur registrando in alcuni casi una temporanea frenata nella crescita, hanno cominciato a dotarsi di strutture industriali, infrastrutture di trasporto, sistemi agricoli forti e promettenti, in grado di temperare la congiunture sfavorevoli di mercato. Da tempo, insomma, molte economie africane hanno cominciato a diversificare le proprie fonti di creazione del reddito, espandendosi soprattutto nell’area dei servizi anche grazie a un utilizzo spesso innovativo delle tecnologie mobili e digitali.
Sono ormai almeno 90 i tech-hub del continente, che offrono spazi di condivisione e risorse a giovani imprenditori e creativi impegnati a cercare soluzioni a problemi di interesse pubblico: accesso all’istruzione, alla connettività e ai trasporti, efficienza del sistema dei pagamenti e del settore medico, tutela dell’ambiente. Quest’ultima è strettamente legata allo sviluppo della risorsa-turismo che in Africa è fondamentale per moltissimi paesi, dal Kenya al Botswana, dallo Zambia alla Namibia, per non parlare delle tante aree marine già valorizzate lungo le coste dello stesso Kenya (Lamu, Malindi), della Tanzania (Zanzibar), del Madagascar, o nelle isole di Mauritius, di Reunion e Capo Verde, nonché ovviamente nell’arcipelago delle Seychelles.
L’influenza dell’economia globale
Il continente africano sta d’altra parte sperimentando anche problemi connessi a trend globali dell’economia, tra cui lo slowdown della Cina. Le esportazioni della manifattura dei Paesi dell’Africa subsahariana verso Pechino sono infatti cresciute da 0,4 a 12 miliardi di dollari all’anno tra il 2000 e il 2013, per poi frenare a seguito dello slowdown. Proprio la Cina ha favorito in Africa la creazione di veri e propri cluster manifatturieri integrati in catene di produzione globali, che da Pechino giungono in Etiopia (vetro, pellicce, calzature, componentistica automobilistica), Uganda (tessile, tubature in acciaio), Mali (raffinerie dello zucchero).
«Siamo tutti consapevoli che la lavorazione delle risorse agricole e minerarie dell’Africa consentirà di ottenere prodotti ad alto valore aggiunto, che aiuteranno il continente ad integrarsi nell’economia mondiale», ha affermato il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, all’ultima Assemblea Generale dell’organizzazione di fine settembre. «La nostra sfida collettiva consiste nell’assistere l’Africa a sviluppare le capacità necessarie, affinché questo avvenga in modo pacifico, ordinato e massiccio».