«Ribaltiamo il rapporto con il Medio Oriente da una posizione di paura ad una di speranza con l’obiettivo di costruire un futuro migliore per i Paesi arabi». Il fondatore e capo analista del think tank Eurasia Group, Ian Bremmer, propone di intensificare il dialogo tra l’Oriente e l’Occidente. Bremmer è preoccupato dall’influenza che l’estremismo sta guadagnando in una parte del mondo islamico, ma lo è ancora di più per l’incapacità mostrata dalla Comunità europea e dai suoi alleati di offrire una solida leadership che possa combattere l’attuale crisi.
Bremmer è stato il primo a teorizzare un mondo senza leader con il suo libro “Every Nation by Itself”, uscito nel 2012, e, in qualità di esperto mondiale del rischio, rilancia l’importanza per le aziende di saper cavalcare con flessibilità le nuove condizioni che si presentano nei mercati globali, tra cui l’instabilità, con l’obiettivo di mantenere la competitività. Oggi ritorna con “We Build Value” sull’argomento, per spiegare le conseguenze che il rischio potrebbe avere anche sulle nostre vite, e per sottolineare come solo una maggiore capacità di presidiare il rischio può permettere alle aziende di crescere sui mercati globali.
Nel più recente dei rapporti annuali sulla stabilità mondiale, “I dieci maggiori rischi”, pubblicato dal suo Eurasia Group, pone l’attenzione sul ruolo dell’Europa. Perché?
«Siamo tenuti a preoccuparci dell’Europa perché nel momento in cui gli Usa stanno riducendo il loro interesse riguardo al Medio Oriente, la Comunità europea si trova a
sperimentare il punto basso della coesione tra i Paesi membri.
Il problema non è la tenuta dell’Euro o la Brexit, ma l’incapacità di esprimere una leadership. L’Europa è in prima linea nella lotta contro l’Isis: direttamente con il rischio degli attacchi terroristici, e indirettamente per la crisi dei rifugiati che ne invadono le frontiere. Senza unità il pericolo è quello di divenire ancora più fragile di fronte alla crisi mediorientale. Questa situazione rischia di trasformarsi in un “perfect storm”, una tempesta senza scampo».
La sua proposta è quindi l’allestimento di un Piano Marshall per il Medio Oriente?
«Aiuti indiscriminati non servirebbero, ma sicuramente potrà essere di supporto un piano di aiuti accompagnati dalla determinazione dei governi di perseguire una politica di cambiamento. Se sapremo agire bene, possiamo dar via ad una autentica rivoluzione».
In che modo?
«Una soluzione sarebbe costruire una coalizione di Paesi donatori, assistita dalle maggiori istituzioni finanziarie globali come il FMI e la Banca Mondiale per fornire supporto ingegneristico, know-how e sostegno nella realizzazione di infrastrutture indispensabili. Un nuovo processo di crescita guidato dai governi locali».
Ha una strategia da suggerire?
«Ora per via della crisi del petrolio, i governi locali sembrano sempre più in difficoltà nell’offrire alternative ai propri cittadini. Questo è il motivo per cui decine di milioni di persone, per lo più uomini, sono tentati dal richiamo del terrorismo, perché non vedono spiragli per un proprio futuro migliore e per quello dei loro figli. Il migliore argomento per dissuaderli è offrire uno spiraglio di speranza e un’economia diversificata».
Chi può offrire una guida, ora che l’indipendenza dal petrolio arabo ha reso gli Usa poco attenti ai problemi della regione?
«Ho già espresso il mio pessimismo cinque anni fa con l’uscita del mio libro. Il Medio Oriente è la prima vittima di un mondo senza più leader perché nessuno ha la voglia e la capacità di rimpiazzare gli Usa nel mantenimento della sicurezza. Nel frattempo lo sviluppo tecnologico ha fornito a intere popolazioni la capacità di esprimere con efficacia il malcontento e di organizzare la protesta. E in più abbiamo oggi un barile di petrolio a 35 dollari che sta accelerando il degrado in molti Paesi».
Chi ha il compito di assicurare la stabilità?
«Lo sforzo principale deve venire dall’interno del mondo arabo se si vuole evitare il collasso. Tocca ai governanti dei Paesi arabi ispirare e indirizzare le popolazioni verso le riforme. Gli americani sono ancora il Paese più attivo nell’invio di aiuti umanitari, ma non sono i soli: il Giappone li segue, e poi la Germania».
Europa e Usa hanno entrambe visto crescere entro i propri confini una grande domanda di populismo in politica…
«Il populismo in Occidente finora è stato tenuto fuori dalla porta dei principali governi, mentre la gravità delle crisi in alcuni Paesi arabi lo ha spinto fino a minacciare l’esistenza stessa di Paesi che rischiano di scomparire se non reagiranno. L’aspetto positivo è che in molti hanno iniziato a rendersi conto dell’entità della minaccia, ma io temo che non ci sia rimasto molto tempo per agire, e forse è già troppo tardi».