«Il programma infrastrutturale di Donald Trump è vasto, articolato e si basa su un’oggettiva necessità di ammodernamento degli Stati Uniti». Robert Shiller, economista di Yale, classe 1946, premio Nobel nel 2013, riflette nel corso di una sua visita in Italia, sulla politica economica del presidente americano. E anche sulla “psicologia” di Trump: «La cosa più sbagliata è prendersi gioco di lui, o peggio considerarlo solo un avventuriero. Mettendo da parte gli aspetti militari, va viceversa analizzato con attenzione il suo articolato progetto economico. Che, non dimentichiamolo, ha suscitato grandi aspettative e grande consenso non solo fra i “blue collar”, gli operai del Midwest delusi e spaventati dalla globalizzazione, ma soprattutto nel mondo del business. Voi non dovete considerare solo i “flyover”, come vengono chiamati in America gli abitanti delle due coste, di Los Angeles e Boston, che sono per tradizione “liberal”, ma anche le immense distese che si trovano nel mezzo, realtà rurali e industriali, spesso difficili, dove non valgono le equazioni dei grandi intellettuali che vanno in televisione (Shiller è nato a Detroit, Michigan, da una famiglia di origini lituane, ndr)».
Ma perché tutti questi voti gli sono venuti dagli ambienti finanziari?
«Perché si aspettano con favore i tagli di tasse da lui promessi, sulle corporation come sugli individui, ma soprattutto le deregolamentazioni anch’esse annunciate. Le banche e le aziende ritengono di essere state troppo imbrigliate nella loro operatività dalle regole introdotte dopo la crisi finanziaria come il Dodd-Frank Act, e vedono di cattivo occhio anche la riforma sanitaria, l’Obamacare (su quest’ultima un primo tentativo di riforma è stato però già bocciato dal Congresso, ndr). La deregulation sarà perciò benvenuta».
E il progetto infrastrutturale?
«Il presidente ha lanciato la cifra di mille miliardi di dollari di investimenti pubblici, che potrebbero diventare ancora di più con le partnership pubblico-privato per le quali si attende la collaborazione dei grandi gruppi in tutto il mondo. Per i finanziamenti, l’amministrazione emetterà ovviamente dei buoni governativi ma ricorrerà anche a innovazioni quali la tassa sul rimpatrio dei capitali. È questa una proposta che per la verità inizialmente fu fatta dai democratici, e che Hillary Clinton aveva rilanciato durante la campagna elettorale, e riguarda le ingenti riserve che le grandi corporation americane detengono all’estero, e anche alcuni individui (una procedura simile alla “voluntary disclosure” italiana, ndr). Trump conta di raggiungere i 200 miliardi con questa procedura. Certo, sono finanziamenti ingenti, ma il presidente si è dato otto anni di tempo e non sono irraggiungibili. Per la verità, ad un certo punto della campagna elettorale Trump ha anche detto che, sempre negli otto anni che corrispondono a un doppio mandato, conta di azzerare il deficit federale. Era troppo, e infatti quest’affermazione non l’ha più ripetuta».
C’è un altro aspetto ancora del programma economico di Trump che spicca per rilevanza, il protezionismo. Fino a che punto si potrà spingere?
«Beh, già nell’incontro dei primi di aprile con il presidente cinese, le parti si sono accordate per una moratoria di 100 giorni nella controversia commerciale con la Cina. E anche per quella europea le possibilità di distensione ci sono: non dimentichiamoci che la controversia si basa su una vecchia questione di importazioni di carne bovina dagli Usa in Europa. L’Europa ha chiesto che questa carne non fosse arricchita con gli ormoni, l’America ha costruito intere filiere per produrre carne priva di additivi e il Wto ha stabilito che questa può essere liberamente esportata nel vecchio continente. Per superare l’impasse, è sufficiente che Bruxelles apra il “rubinetto” dell’export americano, fissando le quote di import consentito e riservandole alla carne Usa come ha stabilito il Wto».
Lei è particolarmente attento, fra l’altro, alla tecnologia. Ha recentemente fatto scalpore la sua presa di posizione a favore della proposta di Bill Gates di tassare i robot. Di cosa si tratta?
«Per essere precisi, l’idea di una tassa sui robot fu sollevata la prima volta nel maggio dell’anno scorso in una bozza di rapporto al Parlamento europeo preparato dal parlamentare Mady Delvaux per la commissione Legal Affairs. Sottolineando come i robot possano accentuare le diseguaglianze nel mondo, il rapporto sosteneva che potrebbe essere utile introdurre nelle relazioni annuali delle imprese un resoconto sul contributo che i robot e l’intelligenza artificiale danno ai risultati aziendali, con lo scopo di prevedere adeguate tassazioni e perfino contribuzioni sociali. La reazione alla proposta di Delvaux è stata totalmente negativa ma con la rimarchevole eccezione di Bill Gates, sempre molto attento agli aspetti sociali della rivoluzione tecnologica, che invece l’ha avallata e sostenuta. E anche io sostengo che bisogna pensarci. Nei soli ultimi dodici mesi, abbiamo visto la proliferazione di apparecchi come Google Home o Amazon Echo Dot “Alexa” che sostituiscono per molte attività le collaboratrici familiari. Abbiamo appreso che ben due servizi di taxi di Singapore, Delphi e nuTonomy, hanno introdotto auto senza conducente che cominciano a sostituire i tassisti. In America abbiamo scoperto che Doordash, utilizzando veicoli in miniatura auto-guidanti con la tecnologia “spaziale” di Starship Technologies, sta sostituendo i ragazzi che consegnano il cibo a domicilio, così come fanno degli speciali robot che portano a casa la pizza Domino’s in Nuova Zelanda con due scompartimenti: uno che mantiene la pizza calda e un altro che conserva in fresco le bevande. E quest’elenco potrebbe continuare».
Però le si potrebbe obiettare che i robot fanno parte della corsa alla moderna tecnologia che non si può arrestare, che i robot danno un grande contributo alla produttività, anche che sarebbe difficile identificare quali macchine si possono definire “robot”…
«Tutto ciò non toglie che uno studio bisogna farlo per riprogrammare il piano fiscale, parlo delle aziende, e valutare come intervenire. Non voglio arrivare all’eccesso profetizzato da Frank Ramsey nel lontano 1927 secondo il quale tutte le attività umane vanno tassate. Ma è inopportuno anche creare sempre più vaste aree di franchigia. Le dirò di più: una modesta tassazione, anche temporanea, sarebbe forse utile per rallentare la distruzione di lavoro portata dalla robotizzazione. Si potrebbe anche pensare a una tassa di scopo: i proventi potrebbero finanziare, Paese per Paese, corsi di riqualificazione per chi perde il posto, un’occupazione per la quale in molti casi l’individuo si era preparato a lungo e che rappresenta la sua vita. Vede cosa intendo quando dico che va rallentato il contributo dei robot alla crescita delle disuguaglianze?»