Cosa raccontano gli operai in pausa pranzo, seduti su una trave d’acciaio in cima a un grattacielo? Una storia intima e una storia collettiva, entrambe catturate nello scatto di un fotografo. Da un lato i volti degli uomini, la fatica e la soddisfazione; dall’altro l’epopea di cui sono protagonisti, la costruzione del Rockefeller Center, uno dei simboli di New York City e della rinascita americana al termine della Grande Depressione. Siamo nel 1932, esattamente il 19 settembre, quando Charles Clyde Ebbets (questo l’autore più accreditato dell’istantanea “Lunch atop a Skyscraper” che serba ancora tanti misteri) immortala gli operai in pausa pranzo in una fotografia che sarebbe rimasta impressa nella memoria di tutti.
È la stessa magia che avvolge il pompiere Paul “Red” Adair, zuppo di petrolio e impegnato a spegnere i pozzi del Kuwait con la dinamite, fotografato da quel grande maestro che è Sebastião Salgado. È il 1991, e questa foto diventa un manifesto della prima guerra del Golfo appena terminata. E ci sono altri scatti, come quelli di Salgado, che raccontano il lavoro ma in una dimensione completamente diversa, non il lavoro come strumento di sviluppo ma il lavoro disperato, quello degli ultimi, quasi una sorta di schiavitù moderna, come nel caso degli uomini seminudi e coperti di fango giunti alla miniera d’oro di Sierra Pelada in Brasile in cerca di fortuna.
Grazie anche al contributo di questi maestri, le fotografie sono divenute uno strumento per raccontare l’evoluzione della tecnica nel lavoro e le conquiste del genere umano. Siano esse istantanee in bianco e nero, ritratti in posa, immagini rubate di uomini arrampicati su pareti scoscese, la loro forza sta proprio nella capacità di rappresentare l’immediatezza dell’attimo, ma anche l’importanza assoluta del lavoro dell’uomo.
E raccontando l’uomo si racconta l’opera, ma anche il correre del tempo, il contesto storico e sociale, lo sviluppo dell’economia e del benessere. Sono tantissimi i fotografi che, attraverso le loro fotografie, sono divenuti testimoni dell’età industriale, accompagnando la nascita e lo sviluppo dell’industria. Così come sono tantissimi quelli che hanno fissato nel tempo la prima epoca d’oro delle infrastrutture, quella dei pionieri impegnati a realizzare opere che divenissero simboli universali.
Pensiamo alle prime immagini delle ferrovie e delle stazioni ferroviarie, scattate nell’Ottocento da Eduard-Denis Baldus, oppure quelle del Crystal Palace di Londra firmate da Philip Henry Delamotte, così come le istantanee realizzate da Delmaet e Durandelle che ritraggono i momenti più importanti della costruzione della Tour Eiffel. O ancora al lavoro di Gabriele Basilico, uno dei fotografi di paesaggi urbani più conosciuti al mondo. I suoi reportage da Milano, Shanghai, Istanbul, Silicon Valley, Rio de Janeiro, Beirut sono racconti di vita e testimonianze della storia degli agglomerati urbani.
Tutte esperienze che offrono l’ennesima prova di come la sfida dell’uomo nella realizzazione di opere epiche abbia sempre affascinato lo sguardo dei grandi fotografi, perché rubare quell’immagine significa in fondo immortalare un momento storico e raccontare un mondo destinato a cambiare.
Cyclopica, un viaggio nella fotografia
Dagli scatti dell’inglese John Meyers che hanno per oggetto gli stabilimenti industriali dismessi nel Regno Unito, a quelli dello svedese Mårten Lange che raccontano la solitudine degli impiegati negli spazi di lavoro di oggi, la fotografia ruba l’anima al presente per farci vivere la sua storia ogni volta che ci fermiamo ad osservarla.
È anche questo il senso di Cyclopica, la mostra immersiva multimediale promossa da Salini Impregilo, che si terrà dal 1° maggio al 3 giugno presso la Triennale di Milano per raccontare momenti di vite lontane, mondi distanti, avventure epiche, racchiuse all’interno di quell’esperienza unica che è la costruzione di una grande opera. Gli uomini che hanno aperto un varco nel continente americano per costruire il Canale di Panama, così come quelli che hanno portato l’elettricità in Italia, favorendone il processo di industrializzazione, grazie alle dighe costruite per conto della Edison nei paesi sperduti delle Alpi (immortalati anche da un maestro del cinema come Ermanno Olmi); o gli uomini che hanno scavato tunnel a centinaia di metri sotto la superficie terrestre, raccontano con il loro lavoro la nascita dei ciclopi, quei giganti infrastrutturali che hanno contribuito allo sviluppo dei popoli.
E proprio il rapporto tra l’uomo e il ciclope, e quindi tra il piccolo e il grande ma anche tra l’arguzia e la forza, rivive nelle oltre duemila opere realizzate da Salini Impregilo in oltre un secolo di vita. Questo rapporto è stato immortalato in 1,2 milioni di immagini e 600 video, raccolti nell’archivio di Salini Impregilo, che negli anni si è affidata all’occhio dei fotografi, con la voglia di raccontare l’evoluzione del Gruppo, dalle sue origini ad oggi. È stata questa l’esperienza di Antonio Paoletti o Guglielmo Chiolini, i primi che – agli inizi del Novecento – hanno immortalato la vita dei cantieri, facendo venire a galla l’ambivalenza tra l’enormità delle strutture e la dimensione dell’individuo, che rimane comunque protagonista delle foto. È lo stesso approccio al racconto sopravvissuto negli anni fino ai lavori più recenti realizzati da Armin Linke, Moreno Maggi, Edoardo Montaina e Filippo Vinardi.
Lavori che oggi vengono messi a disposizione del pubblico attraverso una selezione unica che conduce il visitatore in un viaggio multimediale e multisensoriale nel tempo e nello spazio, tra epoche storiche differenti e paesi lontani.