«La crisi della Cina è strutturale. Ma probabilmente più che di crisi è meglio parlare di rallentamento della crescita. Perché questa torni a impennarsi occorre che sia completata da un lato la transizione verso una vera economia di mercato, al di là delle classificazioni internazionali in discussione in queste settimane, e siano decisamente rafforzati i consumi interni dal momento che le sole esportazioni non bastano più a “tirare” la crescita di Pechino».
Parola di Linda Yueh, la prestigiosa economista che alterna da sempre periodi professionali passati in Oriente e altri in Europa: da pochi mesi ha lasciato l’incarico di corrispondente finanziaria per la BBC a Singapore ed è tornata in Inghilterra dove attualmente insegna sia a Oxford che alla London Business School.
Tradizionalmente, a parte l’export, sono soprattutto due settori a sostenere l’economia della Cina, fra loro collegati: il mercato immobiliare e le infrastrutture. Anche qui la situazione è di paralisi?
«Sostanzialmente sì. La spinta da questi due settori ha conosciuto un lieve incremento in quest’ultima parte dell’anno suscitando diffuse speranze, ma quest’incentivo alla crescita non resterà forte per tutto il resto del 2016».
Questo dipende dal calo degli investimenti?
«Gli investimenti nelle infrastrutture, nel corso del 2016, non cresceranno come in passato. Tutto nasce dal fatto che la Banca centrale è diventata molto prudente nel concedere ulteriori diminuzioni dei tassi dopo l’allentamento nel corso del 2015. Per questo ci aspettiamo che il ritmo degli investimenti, compreso quello nelle opere pubbliche, sia molto rallentato per tutto il 2016 e anche l’anno successivo».
Il governo sta facendo qualcosa per evitare il rallentamento degli investimenti?
«Il governo cinese sta puntando molto sulle partnership pubblico-privato. A settembre il ministro delle Finanze ha lanciato 206 progetti di partnership per un valore totale di 104 miliardi di dollari, nell’ambito dei quali rientra anche la costruzione di un’autostrada a Pechino. Allo stesso tempo il governo sta spingendo affinché anche le più grandi banche del Paese e le istituzioni finanziarie diano il loro supporto a progetti lanciati in partnership con le imprese private».
Metropolitana di Shanghai
Da parte sua il governo cosa metterà sul piatto dei finanziamenti?
«Nonostante il rallentamento dell’economia, la Cina rimane comunque un Paese con un grande piano di sviluppo interno. Un piano ispirato ad una politica infrastrutturale transnazionale che il governo di Pechino ha chiamato “One Belt, One Road”. Si tratta di un piano di investimenti, che dal 2016 in corso possono raggiungere i 100
miliardi di dollari l’anno, e che saranno destinati a finanziare lo sviluppo infrastrutturale non solo all’interno della Cina ma nei Paesi dell’Asia centrale. Ad alimentare questo piano ci sono due soggetti finanziari (fortemente voluti dalla Cina) che stanno diventando operativi proprio in questi mesi: l’Asian Infrastructure Investment Bank (una banca di sostegno allo sviluppo con una dotazione di 100 miliardi di dollari) e il Silk Road Fund (il Fondo della via della Seta) con un patrimonio di 40 miliardi di dollari. Questi due soggetti, nell’ambito del progetto di Pechino, contribuiranno a spingere lo sviluppo infrastrutturale della regione».
Il tutto mentre l’economia continua a vivere una fase di delicata transizione?
«No. La transizione è lunga. Ancora oggi la classe media, che ha cominciato a formarsi in Cina non più di 10-15 anni fa, equivale come capacità di spesa a non più del 50% del totale dell’economia, contro il 60-70% dei Paesi più sviluppati del mondo».
Ci sono poi nuovi rischi da affrontare, come quello della deflazione…
«Il problema della deflazione in Cina esiste, ed è comune con l’Occidente: da tre anni l’indice dei prezzi al consumo è basso, e ancora per tutto il 2016 non supererà l’1,5%. Tutto questo suona sia come un segnale d’allarme sulla vivacità dell’economia che come un ostacolo alla ripresa di una crescita vigorosa come quella cui eravamo abituati».