«Viviamo in un mondo a velocità differenziate quanto a rapidità di crescita. In questo puzzle l’Africa per una volta non sfigura, anzi essendo il continente a più alta intensità di investimenti infrastrutturali, è quello che riesce a valorizzare meglio questa modalità per creare ricchezza».
Dambisa Moyo è la più prestigiosa economista africana. Master ad Harvard e poi allieva di Paul Collier ad Oxford, dopo una fulminea carriera negli uffici studi delle banche d’investimenti anglosassoni, ha aperto la sua società di consulenza a Londra. Editorialista del Financial Times, vive tra la Gran Bretagna e New York ma spesso torna nel suo Zambia, «dove sto cercando di impiantare un’attività che mi consenta di poterci restare sempre più a lungo», ci confida.
È appena stata in Italia per presentare il suo ultimo libro, Winner take all: China race for resources. E si dichiara entusiasta dell’andamento degli investimenti infrastrutturali in Africa.
Ma c’è spazio per tutti o il continente è diventato una colonia della Cina?
«Non credo proprio. A parte che c’è da scontare il rallentamento cinese che potrebbe essere ancora più vistoso di quanto si possa pensare, c’è spazio per tutti. È vero che per le strade di Harare, capitale dello Zimbabwe, i commercianti vendono e comprano in yuan, che vagoni della nuova metropolitana di Addis Abeba sono addobbati con bandiere etiopi e cinesi, e che negli altopiani del Lesotho si scovano operai cinesi intenti a costruire l’ennesima diga, però molti dei lavori più prestigiosi sono stati e continuano ad essere aggiudicati a grandi e medie imprese europee e americane».
Nessun rallentamento dovuto alla recessione in occidente e alle sue conseguenze?
«Se c’è stato, è stato impercettibile e comunque ampiamente superato. Gli investimenti infrastrutturali in Africa attivano un volano di sviluppo formidabile dal quale traggono beneficio in Africa sia il Paese ospitante che l’azienda, con un circuito virtuoso che ha prodotto risultati straordinari: l’Fmi calcola che dal 2003 ad oggi la crescita media di tutti i 48 paesi sub-sahariani è stata fra il 5 e il 7% all’anno. Negli ultimi dieci anni, sei fra i 10 Paesi a più forte crescita del mondo sono africani, nel 2012 cinque hanno battuto la Cina e 21 l’India. Se pensiamo che l’Africa contribuisce ancora per non più del 2% all’interscambio mondiale, ci rendiamo conto di quanto i potenziali di crescita siano immensi».
Juba, Sud Sudan
Lei, quando a investire in Africa erano solo gli europei e gli americani, con un suo precedente libro, Dead Aid, avvertì che il profluvio di denaro investito non aveva avuto effetti sullo sviluppo delle economie locali. Ora cosa è cambiato?
«Sarà una coincidenza, ma dopo la crisi gli aiuti americani ed europei hanno cambiato modello a favore di uno schema più convincente con investimenti produttivi diretti meglio finalizzati. Allo stesso tempo, in Africa, cresce il numero delle democrazie con governi eletti e sottoposti a regolari verifiche. Ecco perché Europa e America possono benissimo riconquistare le posizioni perdute a favore della Cina».
Puntando su quali asset?
«Sul know-how, la competenza, e anche la storia. L’infrastruttura principe, di cui c’è ancora bisogno in Africa, è la scuola, che porta con sé la capacità imprenditoriale, quella per intenderci che ha permesso agli americani di inventare Skype e Google. Lo stesso Presidente Usa, Barack Obama, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha detto: “Non possiamo mollare sul fronte della scuola, della formazione e dell’investimento sui giovani. Sarebbe come, per alleggerire un aereo troppo pesante, buttare il motore”.
Bene, per gli investimenti in Africa tutto questo ha una valenza ancora maggiore».